fanciulla_scena_apprcarsen3Questi due spettacoli che la Scala ha allestito nel mese di Maggio confermano che il teatro ha i requisiti necessari per mettere in scena contemporaneamente due produzioni di altissimo livello.
Partiamo dunque dalla Fanciulla.
Innanzitutto una nota di lode a Barbara Havemann, che ha sostituito per quasi l’intera durata della produzione l’attesa Eva-Maria Westbroek, e che con il suo timbro pieno e caldo ha dato vita ad una Minnie eccellente.
k61a57174Bene anche Claudio Sgura, Jack Rance, una splendida voce baritonale e un’ottima interpretazione del ruolo forse più significativo della partitura.
Ho apprezzato un tantino di meno Roberto Aronica, il quale ha dimostrato qualche difficoltà di emissione in alcuni punti; ciò detto, nell’economia generale, non ha affatto inficiato, e il suo Dick Johnson è risultato in ogni caso più che sufficiente.
Carlo Bosi è sempre una sicurezza, artista scaltrito, dotato di senso scenico formidabile e di una splendida voce. Le sue interpretazioni sono sempre una lezione di professionalità e capacità artistica.
Claudio Sgura 019_K61A2985Tra i comprimari vorrei menzionare Alessandro Luongo (Sonora), che ha una buonissima emissione e del pari anche Gianluca Breda, che confermano le ottime scelte per parti di carattere che la Scala sta compiendo.
La direzione di Riccardo Chailly, che ha presentato la versione integrale, è stata sinceramente ottima. Chailly riesce sempre a ottenere un colore pieno, omogeneo e definito dai complessi; interessante il lavoro sui temi “del far west”, se mi si passa l’etichetta, davvero autentici. Si è così evitato il rischio “cartapesta” che in quest’opera, a dire il vero, è sempre in agguato.
Robert Carsen, infine, ci ha proposto un far west da “Ombre Rosse”, insomma proprio quell’ambientazione di maniera che ha creato un contrasto peculiare con la lettura musicale di Chailly. L’allestimento tuttavia è splendido, grande negli spazi sconfinati dei Canyon americani e chiuso, claustrofobico e intriso di alcol e sigarette nelle scene all’interno della “Polka”. Credo che ciò che più si apprezza di questa messinscena siano proprio gli apparati scenografici, che, come è giusto, permettono allo spettatore di immergersi davvero in quell’atmosfera tra il fiabesco e il crudamente reale che caratterizzò la Gold Fever, nella California di metà XIX secolo. Allestire quest’opera in altri modi, cercarne tratti di modernità o comunque di collegamento con l’oggi a mio avviso non ha assolutamente senso. La vicenda narrata deve essere portata sul palcoscenico come una fiaba (o un film).

L'enfant et les sortileges
L’enfant et les sortileges

Tutt’altro spettacolo il Dittico Ravel proposto nell’allestimento sognante di Laurent Pelly.
Di norma sono abbastanza critico nei confronti di questo regista, del quale non apprezzo tutto (lo scialbo Comte Ory di due stagioni fa è un esempio assai evidente). In questa occasione ho trovato la produzione non solo di un estremo buon gusto, ma anche perfettamente aderente al colore così insolito (forse per noi che non siamo abituati a sentirla) delle due opere.
L’atmosfera naive, assolutamente di gusto francese che Pelly ha saputo costruire ha reso davvero interessante questa accoppiata di titoli preziosi e rari.

L'enfant et les sortileges

Bene anche la conduzione di Mark Minkowski, sulla quale non mi trattengo più di tanto poiché, essendo per me il primo ascolto delle partiture, non ho parametri sufficienti per emettere un giudizio serio. Ho molto gradito tuttavia gli equilibri all’interno dell’orchestra, che invece troppo spesso vengono a mancare.
Trovo che come direzione, il secondo spettacolo sia stato più riuscito, nella Poikilia di colori e forme musicali che si affastellano l’una sull’altra.
Tra gli interpreti di ambo le opere si sono distinti in modo particolare Yann Beuron (Gonzalve), per la voce perfettamente controllata e per l’emissione chiara e fluida, e il Don Inigo Gomez di Vincent Le Texier, che ha affrontato la sua parte dando prova di un timbro naturalmente assai fortunato, sonoro.
069_k65a4011Della seconda opera vorrei ricordare Marianne Crebassa, felicissimo ritorno dopo Lucio Silla, la cui splendida voce, dolcissima e morbida, non è affatto cambiata e Delphine Aidan, che non avevo mai ascoltato, il cui timbro di contralto è scurito e fascinoso.
In conclusione, questi dittici o trittici sono occasioni imperdibili per esplorare zone d’ombra nel repertorio musicale, che attirano un pubblico di autentici appassionati (oltre ai soliti frequentatori e ai turisti), e personalmente spero davvero che vengano create altre occasioni simili, dove il teatro davvero si fa luogo di ricerca e approfondimento per la cultura personale.
Saluti da Milano, alla prossima!
Stefano de Ceglia

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