Der Rosenkavalier è uno dei capolavori del teatro musicale del Novecento. E’ un connubio di raffinatezza dotta, comicità sgargiante e autentico, aristocratico sentimento, e questa dialettica di stili è una cifra distintiva di Richard Strauss.
L’altra sera ho avuto il piacere di assistere ad una serata pressoché perfetta, sia sotto il profilo musicale che sotto quello drammatico.
Krassimira Stoyanova, che alla lettura del cast mi aveva suscitato alcuni dubbi, ha completamente capovolto le mie aspettative, ed è stata una Marschallin incredibilmente a suo agio nella parte, dal timbro caldo, per nulla lacrimevole o “coquettoso” (la Schwarzkopf era straordinaria, ma in alcuni punti figlia del suo tempo, e un po’ manierata). E’ insomma questa Principessa una donna vera, nobile e intelligente, che si rassegna con quell’abbandono incantevole e un po’ disincantato alla vita.
Così bene anche per Sophie Koch, Octavian di rara bellezza vocale, con una voce forse forse un po’ chiara per la parte, ma assolutamente appropriata a livello complessivo. Grande espressività soprattutto nei due splendidi duetti (atto II, finale atto III).
La sua compagna, Sophie interpretata da Christiane Karg, ha un timbro assai limpido, innocente e un bel fraseggio.
Bisogna spendere due parole di lode per Gunther Groissbock, che oltre ad aver restituito al pubblico un Ochs perfettamente coerente, finanche nell’inflessione dialettale, ha sfrondato il personaggio di una certa patina (che è sempre andata a braccetto con la Marschallin di cui sopra) che vedeva nel barone un grasso elefante un po’ ridicolo, cosa che anche Strauss ha sempre dichiarato fuori dai suoi intenti. Groissbock ha dimostrato dunque in primo luogo eccellenti qualità interpretative, che hanno ripulito la innegabile comicità di Ochs da quell’atmosfera da osteria francamente un tantino demodé.
Bene, anche se non del tutto i parenti di Sophie, Adrian Erod e Silvana Dussmann, mentre hanno dato vita a personaggi vivaci Kresimir Spicer (Valzacchi) e Jannina Baechle (Annina).
Tra i comprimari si ricorda Benjamin Bernheim, (il Tenore) ruolo a cui il genio di Strauss ha regalato una aria stupenda che è sempre un piacere ascoltare ben eseguita come nel caso di Bernheim.
Zubin Mehta trova nella partitura del Rosenkavalier uno dei suoi cavalli di battaglia, e crea mille colori in orchestra, destreggiandosi nel multiforme mondo musicale di Strauss, tra il brio dei valzer e gli occhiolini a Mozart. La lettura di Mehta ha una grazia, una nobiltà che è difficile descrivere; l’orchestra è assolutamente coinvolta nello svolgimento della narrazione in tutti i momenti, e ora sembra sghignazzare delle poco fini uscite di Ochs, ora si unisce struggente nel terzetto finale, vero momento di teatro totale. Bellissima la tessitura degli archi, che in molti momenti creano quella “cortina” di suoni acuti che sembra quasi stendere un velo sui protagonisti.
Senz’altro la regia di Harry Kupfer è la migliore che abbia mai visto per questa composizione. Tutta giocata sul continuo trapasso tra favola settecentesca e realtà novecentesca, tra sogno dell’età d’oro dell’Impero e consapevolezza di una nascente finis Austriae mette in gioco per il primo atto una astuta scenografia scorrevole che continua a condurci dalla camera della Marschallin, idillio protetto ma anche luogo di riflessione esistenziale, e la chiassosa realtà esterna, dove pullulano personaggi più svariati. La porta, elemento centrale in scena, separa la finzione da quella realtà che la stessa principessa dovrà presto affrontare. Sullo sfondo le magnifiche proiezioni di foto davvero molto belle (un elogio a chi le abbia scattate) della città di Vienna.
Il colpo di genio sta nel terzo atto, che Kupfer fa svolgere al Prater, luogo per eccellenza del divertimento e dello scherzo. Le ruote panoramiche rimangono sullo sfondo, mentre in primo piano viene allestita una tavernaccia proprio come quelle degli allestimenti tradizionali (il riferimento all’allestimento di Karajan, famosissimo, è evidente). Con questo espediente il regista fa si che lo spettatore sappia che questa scenografia “come si deve” sia solo un bel teatrino di cartongesso. Alla fine, infatti, la taverna sparisce, ed entriamo in un luogo scenografico senza tempo. E’ un parco di Vienna, al mattino, non si è più ne’ nel Sette ne’ nel Novecento. I due giovani contemplano il loro amore appena nato, e, rigorosamente su una macchina dell’epoca di Strauss, la Marschallin e Faninal passano sullo sfondo, senza fermarsi. “Son questi i giovani.” –“Si, si.”
Il teatro non era pienissimo, e ciò dispiace un poco, giacchè tra tutti i titoli proposti in questa stagione, questo è sicuramente quello che meritava di essere visto, ascoltato, goduto.
Saluti da Milano, alla prossima!
Stefano de Ceglia