
Abbiamo avuto l’onore e il grande piacere di poter incontrare Luciana D’Intino, mezzosoprano di fama mondiale, uno degli ultimi esempi della scuola di canto italiana, celebre per le sue interpretazioni verdiane, nei più grandi teatri del mondo e sotto la direzione delle bacchette più prestigiose, e protagonista il mese scorso di “Carmen” e di “Aida” (Amneris) all’Arena di Verona.
Come si è avvicinata al canto lirico?
Io canto da sempre, da quando avevo cinque, sei anni e facevo la voce bianca nel coro della mia parrocchia. Mai avrei pensato di fare l’opera, se non che un insegnante della scuola media fondò un coro femminile a tre voci e si accorse di una voce che faceva da “pedale” a tutte le altre: ero io. Il professore mi incoraggiò ad iniziare a studiare canto lirico. Io avevo tutta la famiglia contro, anche se mia madre aveva un fratello più vecchio appassionato d’opera, che probabilmente essendo nato in piccolo paese, nel 1915, non ebbe la possibilità di coltivare questo interesse. Alla fine vinsi io e dopo aver ottenuto il diploma magistrale, mi iscrissi prima al conservatorio di Udine, e poi a quello di Venezia, dove mi sono diplomata. In conservatorio si accorsero che avevo delle doti fuori del comune. Non ho per esempio mai dovuto studiare un passaggio tecnico, perchè avevo una natura spiccata per la posizione del suono. Solo con gli anni ho preso consapevolezza del meccanismo fisico della voce. Non sono mai stata convinta di fare questo mestiere, perchè non ho mai creduto nelle esteriorità, di cui l’opera lirica è fatta, come tutte le arti che richiedono un pubblico, delle agenzie e delle direzioni. Io ho cantato nei teatri più importanti del mondo, con i più grandi direttori del mondo, ma ho conquistato tutto sul campo: avevo una normale agenzia, ma per esempio non ho mai avuto un press agent. Mi ritengo un “architetto” della vocalità, “un’artigiana” della musica.
Poi c’è stato il concorso As.Li.Co/Belli e il debutto nel ruolo di Azucena….
Io partecipai al concorso As.Li.Co/Belli che allora erano uniti. Ad un certo punto i due concorsi si dividevano e io studiando con Mirella Parutto, a Roma, decisi di continuare il Belli, a Spoleto. Mi presentai al concorso con “La Cenerentola” di Rossini e modestamente cantavo un rondò con acuti che nessuno aveva. Mi proposero però subito Carmen e Azucena ne “Il Trovatore”: avevo solo 22 anni e mezzo. Feci Trovatore, ma lo ripresi soltanto vent’anni dopo: questo perchè ho sempre avuto le mie idee e non mi sono mai lasciata trascinare. Dopo di questo ho fatto il concorso “Maria Callas”, che non ho vinto, pur arrivando prima nella mia categoria. Da quel momento è partita la mia carriera, senza aver mai fatto il comprimariato. Nel 1984 ho debuttato Amneris e poi sono arrivate le Eboli in “Don Carlo”, Bouillon in “Adriana Lecouvreur” e oltre 200 “Messa di Requiem”, con tutti i più grandi.
Qual è la differenza di preparazione e di percorso tra la sua generazione e quella di oggi?
Noi eravamo molto preparati, pur debuttando più giovani. Oggi molto spesso i cantanti non hanno un background alle spalle, che noi cominciando a studiare molto giovani, avevamo. Io ho cominciato a studiare canto lirico a 16 e ho debuttato a 23. Oggi dopo un piccolo periodo di studio i giovani vengano lanciati su palcoscenici importanti. A 25 anni Aldo Rocchi direttore artistico dell’Arena, mi propose di fare Carmen. Io rifiutai perchè pur avendo la vocalità, ritenevo di non avere l’esperienza per gestire quel ruolo su quel palcoscenico. Lui mi disse che non avrei mai fatto carriera. Ho sempre avuto un carattere forte, perchè la voce è solo l’ultimo fattore per questa carriera. E’ l’ultimo elemento di un corollario fatto di carattere, determinazione, rigore e etica (ossia il comportarsi “bene”). Questo è quello che ripeto sempre ai miei allievi.

Oggi non vedo questo, perchè i giovani vengono lanciati allo sbaraglio, e non hanno una cultura. Noi imparavamo come stare in scena, come muoversi, come “prendere” la luce. Ci veniva insegnato come un gesto e uno sguardo potesse trasmettere un’emozione. Oggi animali da palcoscenico non ce ne sono, mi dispiace doverlo dire. Non invidio i giovani. Si dà troppo peso all’aspetto fisico, che è un aspetto importante, ma non è il primo. Ci sono state cantanti più che robuste che avevano voci stratosferiche, penso alle americane Alessandra Marc e Sharon Sweet, con le quali ho fatto “Norma” e “Aida”. Oggi non si possono ammettere più fisicità così importanti e su questo sono d’accordo, ma non si può neanche scritturare un cantante solo per il suo aspetto estetico. Quello che conta è la personalità. José Carreras, con il quale ho fatto “Samson et Dalila” è un uomo bellissimo, ma non molto alto: sulla scena diventava alto. Come succedeva a Antonio Gades, il grande ballerino di flamenco, che diventava enorme quando danzava. Questo è il carisma. Il carisma viene da dentro e involontariamente esiste, come il “duende” nel flamenco. Non si costruisce niente, si può solo tirare fuori. Io dico ai miei ragazzi che io tirerò fuori da loro quello che hanno, non quello che non possiedono.
Probabilmente oggi vi è una carenza anche nell’insegnamento…
Oggi molto spesso ci si improvvisa insegnanti. È difficile insegnare perché bisogna mettersi a livello dell’allievo, entrare nella sua testa e nel suo modo di pensare e utilizzare un linguaggio nuovo, accessibile al singolo. La tecnica è una e lo stile, l’applicazione che è diverso.
E’ quello che ha fatto lei….riuscendo ad affrontare tutto il repertorio per voce di mezzosoprano…
Si utilizza uno stile, un fraseggio appropriato all’autore, senza cambiare la tecnica. La voce è come un’automobile con sei marce: se tu le sai utilizzare bene sei un grande pilota. Perché le sei marce non sono un limite, ma solo un range in cui muoversi.

Crede che oggi ci sia meno volontà di immedesimarsi nei ruoli che si interpretano?
L’immedesimazione è il bello di questo mestiere. Oggi molto spesso i cantanti sono solo degli esecutori. Il bello è poter essere a poche settimane di distanza Carmen e Amneris, una sigaraia e una principessa. Carmen viene dal popolo, puoi danzare, correre…..Amneris invece ha l’allure, un fascino che deve trasparire in ogni momento dell’opera. Sei sempre tu ma ogni gesto ha una sua logica e un suo impatto emotivo. La produzione di Aida dell’Arena ha bisogno di movimenti ampi per le grandi distanze. Se c’è una regia moderna, in un teatro al chiuso, si gioca su altri fattori. Il cantante lirico deve essere un camaleonte, che ogni volta cambia pelle o colore.
Carmen è un ruolo dalle mille sfaccettature e dalle mille possibili letture….com’è la “sua” Carmen?
La mia Carmen credo arrivi subito nella sua essenza al pubblico. Io non “ancheggio”, sono profondamente terrestre. Per Carmen mi sono sempre ispirata al mito di Medea. Ritengo che Carmen non sia innamorata di nessuno, l’amore è solo la chiave per la libertà, e lei dall’inizio alla fine, sa di dover morire. Lei è un personaggio distaccatissimo, per questo io penso non lo possa fare una giovane. A 25 anni si può interpretare solo una parte di Carmen, quella più vicina al personaggio di Merimée. Il personaggio di Bizet però è diverso..con l’aria delle carte c’è una spaccatura e lì non puoi essere frivola…..comincia la tragedia. Questo è stato lo scandalo di Carmen. Nell’Opera Comique, come in tutto l’Ottocento, c’era il patetismo, ma non la tragedia, l’espressionismo. Carmen è assolutamente attuale, appartiene a ieri, a oggi e speriamo a domani. Carmen ti permette anche di recitare. Molto spesso durante le prove io non canto, recito e basta sul ritmo. La musica è stratosferica, ma se tu leggi solo il libretto, ti accorgi che non è stupido è solamente in funzione della rima. Penso alla frase “Les amours de Carmen ne durant pas six mois “, da cui traspare tutta la modernità di Carmen, una donna che cambia uomo ogni sei mesi. Bizet era un genio, ha fatto tutto questo senza neanche andare in Spagna…peccato che ne abbia vista la fortuna solo nell’oltretomba.

Ho amato Carmen, anche se ho fatto solo una cinquantina di recite. Ma mi ritengo fortunata. Oggi vogliono lo stereotipo di Carmen, donne bellissime che ancheggiano. Quello che serve è la voce, la profondità, la sensualità del suono e il saper catturare Il pubblico. Qui in Arena è più difficile, ma è sempre un piacere e un’emozione cantare qui. Per Carmen serve inoltre un grande tenore, che sia l’esatta impronta di Carmen….serve una coppia vera. Carmen e José sono a specchio, si devono riflettere l’uno dentro l’altro, anche più di Romeo e Giulietta. Lì l’amore vince su tutto, in Carmen l’amore perde, vince la libertà. Questo perché non vanno insieme, molto spesso chi ha avuto l’amore ha perso la libertà, e chi ha avuto la libertà ha perso l’amore. È un archetipo come Don Giovanni, e dunque è eterna. Se ritorniamo al parallelo con Medea, dobbiamo dire che a Carmen è negata la maternità, perché una madre sacrifica la propria libertà per i figli. È un’eroina che si sacrifica solo per la sua libertà. Pensiamo a tutte le donne che vengono uccise per la propria libertà d’espressione. Gli uomini sono così narcisi che devono avere uno specchio da imbrattare, che è la loro donna. Le mie Carmen non sono mai state oleografiche, perché il mio personaggio non cambia, resto fedele alla mia linea e alle mie idee. Quando lei si arrabbia con José nel II atto, viene fuori il suo coraggio straordinario, che spesso manca alle donne davanti ai loro uomini. Quello di Carmen è un canto che richiede prestanza vocale, passando dal canto popolare, il cante jondo del flamenco, il canto legato, il canto drammatico, il declamato, fino ad arrivare al recitato puro.
Una consistente parte della sua carriera è occupata da Verdi e dalle sue incredibili creature per mezzosoprano, Azucena, Eboli e Amneris, che ha interpretato all’Arena di Verona….ci parli di questi personaggi…
Amneris è meno sfaccettata di Eboli, tuttavia Verdi è l’unico che è riuscito a tirare fuori l’anima della vera donna padana, forte, perentoria, rigorosa e concreta. È stato l’unico a mettere sulla scena delle donne che vanno contro gli uomini, come la stessa Carmen. Per questo io dico che non è una cosa strana cantare a poca distanza Carmen e Amneris. Neanche Wagner ha avuto il coraggio di scrivere una cosa del genere. Amneris si redime in qualche modo nel finale, mentre Eboli organizza la sommossa per far liberare Carlo, passa all’azione. Poi lei prova sentimenti contrastanti, perché prova un reale affetto verso Elisabetta, nonostante sia una donna potente. Eboli, inoltre, è stata un personaggio storico realmente esistito, Anna de Mendoza, la cui vicenda è stata romanzata da Schiller e poi da Verdi, il quale ha preso nelle sue opere tutte donne che venivano dal regno di Navarra: pensiamo a Preziosilla e Azucena. Verdi la sapeva lunga. Eboli è un ruolo assolutamente sfaccettatissimo, che parte dal virtuosismo assoluto della canzone del velo, la parte drammatica del terzetto e del quartetto, fino al momento di “O Don fatale”. Preferisco la versione italiana a quella francese, perché il personaggio è meno morbido e più chiaro e diretto. Penso che chi faccia Carmen può fare bene Verdi, perché Eboli, Carmen e Amneris hanno qualcosa che le unisce. Amneris è all’inizio più capricciosa, più esteriore e forse più banale. Questo perché il personaggio di Aida ci riporta al patetismo di pieno ottocento, anche se non bisogna dimenticare che anche lei è la principessa del suo popolo. Amneris trova la sua forza nel IV atto, dove ha potere di vita o di morte. Io credo che per lei Radames sia solo un giocattolo, poiché Amneris credo tenga realmente all’amicizia di Aida. Nella sua posizione può avere tutti gli uomini che vuole, Radames è solo uno sfizio. Quest’ultimo personaggio è quello meno sfaccettato, molto vicino al personaggio di Pollione in “Norma”, é quasi una marionetta nelle mani delle due donne. Questo non vuol dire che ci voglia un grande cantante.
Nonostante tantissimi anni di carriera, c’è qualche ruolo che le piacerebbe debuttare…o riprendere…
Da debuttare non mi manca praticamente niente, perché ho fatto tutto, anche Marina nel “Boris Goudonov”. Forse mi manca Wagner, ma non credo lo affronterò per la questione della lingua. Mi sento di essere e di rimanere una belcantista. Mi piacerebbe approfondire il verismo, per esempio il bellissimo ruolo di Stella dell’Assassino in “Parisina” di Mascagni. Nel 2013 c’è stato il centenario dell’opera, ma purtroppo nessuno l’ha messa in scena, un po’ perché non è un titolo popolare e anche perché è difficile trovare un tenore che sia all’altezza. Ecco questo sarebbe un repertorio che mi piacerebbe affrontare, ovviamente con una certa classe, senza calcare la mano sugli effetti. Per il resto non ho desideri. Molte volte mi hanno proposto Lady Macbeth, ma pur cantando “La luce langue” in concerto, trovo che il ruolo sia troppo acuto. Sono contenta di quello che ho fatto, non mi manca niente.
L’anno prossimo però ci sara un debutto: “La fanciulla delle nevi” di Rimskij-Korsakov all’Opéra National de Paris, con il ruolo della Bella Primavera…..
Sì questo sarà un debutto in un’opera di rara esecuzione. La difficoltà sta nella lingua, mentre musicalmente è fattibile. Marina nel Boris l’ho affrontata dieci anni fa, quindi devo riprendere la sonorità russa, non parlando russo.
Qual è il suo rapporto con i registi e con le messinscene non convenzionali?
Con i registi ho un rapporto conflittuale. Penso che un grande regista debba capire chi ha davanti e deve lavorare come uno psicologo. Non può abbandonarsi agli stereotipi. Deve comprendere il meglio di chi ha davanti e fare in modo che emerga. È quello che fa l’insegnante, che deve capire le individualità di ogni allievo, che può essere più emotivo o più aggressivo degli altri. Il regista pur avendo la sua idea, deve tenere conto di tutto questo e mi deve convincere. Ciò che è fondamentale è l’attitudine. Oggi molto spesso i cantanti sono delle marionette, anche perché un giovane non può controbattere, non avendo spesso gli argomenti per farlo. Io mi pongo con il regista chiedendogli delle spiegazioni sui gesti che devo fare, se lui mi convince io lo seguo.
Quali sono i consigli che darebbe ad un giovane che si avvicina al canto lirico?
Prima tutto di documentarsi, poi di essere critici verso sé stessi, cercare un buon insegnante e discutere faccia a faccia con lui. Non bisogna arrendersi mai e non accontentarsi mai, che non vuol dire pretendere, ma cercare continuamente, nel canto come nella vita. Io nei miei Master Class ho avuto grandi soddisfazioni, avendo degli strumentisti presenti, i quali mi hanno ringraziato perché con le mie lezioni sull’uso del fiato ho insegnato loro a suonare. Da lì ho capito che non sbagliavo e che la tecnica dei fiati della voce può essere applicata agli strumenti, essendo la voce stessa uno strumento. C’è un illustre esempio: la tecnica prodigiosa di Mariella Devia, che risente del lavoro fatto con suo marito (che ora non c’è più), Sandro Verzari, grande trombettista e prima tromba dell’Orchestra Sinfonica della Rai.
Grazie a Luciana D’Intino e in bocca al lupo!!
Francesco Lodola
Intervista realizzata il 16 luglio 2016
Brava bravissima ! Vera artista completa nella voce ma più nella sua personalità condita da una precisa intelligenza e cultura che ormai è sempre più rara negli attuali interpreti che devo sottostare ai tanti forse troppi di registi …incompetenti
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