
A maggio 2016 avevamo ammirato a Venezia Il Barbiere di Siviglia firmato da Bebi Morassi (qui la recensione), per la semplicità con cui il regista veneziano creava uno spettacolo divertente, senza essere oleografico ed eccessivo. L’incanto si ripete con L’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, che è in questi giorni in scena alla Fenice. Proprio nel programma di sala Morassi scrive che “il fine del teatro è il maravigliare”, e lui lo fa coadiuvato dai costumi (eleganti e colorati) e le scene di Gianmaurizio Fercioni, ricavate dai bozzetti della prima assoluta (1832) al Teatro della Cannobiana di Milano. Le luci sono curate da Vilmo Furlan, mentre i movimenti coreografici portano la firma di Barbara Pessina. La visione di Morassi non si limita a descrivere la vicenda, ma ne dà anche una lettura personale, tutti i personaggi sembrano uscire da un cabaret: Dulcamara e Belcore con le loro entrate rinforzate da slogan pubblicitari e Adina come Diva del paese. Tutti hanno delle sovrastrutture che mano a mano vengono smontate. Nemorino è l’unico che ne è privo, che è genuino nei sentimenti e nelle reazioni. L’entusiasmo del pubblico è acceso ancor di più, grazie a semplici ma deliziose trovate, come il fatto di far entrare il coro dalla platea nel I atto, come anche Dulcamara nel finale, e i volantini tricolori gettati dal loggione durante la cavatina del dottore (citazione della prima scena di “Senso” di Luchino Visconti, girata proprio alla Fenice).

La Fenice è un modello di gestione amministrativa e artistica: una macchina di arte in cui la quantità (è il teatro che in Italia probabilmente produce di più) e la qualità (varietà di titoli, repertori, autori e compagnie di canto sempre all’altezza) vanno di pari passo. Anche in questo caso abbiamo assistito ad una recita musicalmente soddisfacente, in cui uno dei meriti principali era la direzione di Stefano Montanari, concertatore d’esperienza, capace di creare tensione musicale e teatrale, giocando con i cantanti in palcoscenico, creando momenti comici esilaranti.

Nemorino era il giovane Giorgio Misseri, tenore dalla voce di bello smalto, con buon volume e adeguato sostegno in tutta la tessitura. Vocalmente dunque tutto è a posto, ciò che farà sicuramente nel futuro sarà rendere più scaltrito e sfumato il fraseggio, rendendo il personaggio più interessante, nella sua evidente timidezza.

La stessa magia scaturiva dalla prestazione vocale di Irina Dubrovskaya, recente Amina ne “La Sonnambula”a Verona (qui la recensione), che qui ritrovavamo in un personaggio belcantistico totalmente diverso. Adina è una ragazza sicura, spigliata, capricciosa (dice lei stessa), che sa far innamorare, ma che forse non sa innamorarsi. La Dubrovskaya riesce a rendere ogni sfaccettatura con la grazia che le è propria, e vocalmente domina la parte con facilità assoluta, riuscendo ad essere maliziosa e divertente, ma soprattutto incantevole nella grande aria “Prendi per me sei libero”, dove fa sfoggio di una capacità di fraseggio eccellente e di un’utilizzo dei colori assolutamente da lodare.