
Il 15 dicembre 1966 andava in scena al Gran Teatro La Fenice Norma di Vincenzo Bellini, per l’inaugurazione della stagione. Protagonisti prestigiosi, Elinor Rossi, Mario del Monaco e Ivo Vinco. Solo un mese prima il capoluogo veneto era stato colpito da una tremenda alluvione, causata dall’acqua alta che sfondò i murazzi e provocò vittime e inoltre danni ingenti al patrimonio culturale della città. Verdi e il suo librettista, Temistocle Solera, scrivevano nel prologo di “Attila” (prossima opera in cartellone a Venezia): “Ma dall’alghe di questi marosi, qual risorta fenice novella, rivivrai più superba, più bella della terra, dell’onde stupor”. Cosi ha fatto Venezia ed il centro della sua vita culturale, il Teatro La Fenice. Aquagrande è una grande ode a Venezia, la città che è amata dai suoi cittadini, ma un po’ da tutti noi. Ma perchè amiamo Venezia? Sicuramente non solo per le gondole (ormai rifiugio dei turisti che vogliono sentir cantare la venezianissima “O sole mio”), e neanche per i piccioni affamati al limite del cannibalismo. La si ama per il suo essere città impossibile, così architettonicamente instabile, sospesa sull’acqua e sul tempo. Una città piena di luci e di ombre che si riflettono nella sua Aquagranda, “acqua negra, prava (…) sporca, porca, unta, lurica, lercia, sorda (….)Acqua sposa, amorosa, schifosa, smorfiosa”, come dice il libretto di Roberto Bianchin e Luigi Cerantola.

Nel cinquantesimo dell’alluvione, la città metropolitana di Venezia, come dice il sindaco Luigi Brugnaro, si raccoglie intorno a questa ricorrenza, programmando innumerevoli iniziative, che hanno avuto il loro apice con la messa in scena della prima assoluta di “Aquagranda” alla Fenice, che si dimostra eccezionale macchina che produce arte di grandissimo livello, attenta alle esigenze del pubblico, che è molto più intelligente di quanto si pensi e per questo accoglie con grandissimo successo operazioni come questa, al posto di un’ennesima produzione di un titolo del grande e solito repertorio.
La dimostrazione è l’esaurimento di tutte le recite dell’opera inaugurale. Un grande merito va ascritto al sovrintendente Massimo Chiarot, che ha dimostrato che l’opera non è morta, ma che ancora oggi si può produrre teatro musicale non inferiore a quello del glorioso passato.

L’approccio di Perocco al teatro musicale non appare narrativo, ma forse verrebbe da definirlo come impressionistico, basato sulla suggestione e sull’uso di tutte le sonorita possibili, come nella migliore tradizione avanguardista. La trama stessa del libretto di Bianchin e Cerantola, ambietata interamente nell’Isola di Pellestrina, è molto scarna, dove i sette personaggi sono sudditi di una grande sovrana, che è l’acqua, rappresentata dal coro (diretto da Claudio Marino Moretti),che diviene vero fulcro, con una parte musicalmente difficilissima, in cui le voci si intrecciano, giocando onomatopeicamente sulla ripetizione delle sillabe, creando con il suono lo scrosciare dell’acqua, di particolare suggestione. Si tratta evidentemente di un’opera complessa, con un organico che prevede inoltre un pianoforte preparato e un leggero utilizzo dell’elettronica. Non manca però la melodia: ricorrono infatti echi di canti lagunari e di melodie popolari e vi sono anche alcune bellissime frasi melodice, perlopiù affidate al personaggio di Lilli.

Efficace la direzione di Marco Angius e ottimo il cast vocale, composto interamente da giovani, vocalmente eccellenti e anche teatralmente impegnatissimi. Emergevano Andrea Mastroni, nella parte ricca di scarti tra i vari registri di Fortunato, Giulia Bolcato (ammirata poco tempo fa in un concerto veronese) è una Lilli di grandissimo spessore, con vocalità luminosa e dolcissima, per la quale sogniamo un futuro ricco di grandi successi. Marcello Nardis, l’abbiamo già ammirato come Monostatos a Verona e nel suo irresistibile Conte d’Albafiorita di Mirandolina, sempre qui alla Fenice (qui la recensione) . Ancora una volta si dimostra interprete dotato di grande vis teatrale e musicista di grande spessore, capace di dominare una scrittura ardua come quella prevista da Perocco per il personaggio di Cester. Bravissimi anche gli altri, Mirko Guadagnini (Ernesto), Silvia Regazzo (Leda), Armando Gabba (Nane), William Corrò (Luciano).

Infine arriviamo allo spettacolo creato da Damiano Michieletto, sicuramente uno dei suoi migliori. Intanto una immensa lode la dobbiamo a Chiara Vecchi (movimenti coreografici), Carmen Zimmermann e Roland Horvath (video designers), Davide Tiso (regista del suono e live electronics) ed infine Alessandro Carletti, curatore delle ottime e suggestive luci. Non esisterebbero gli spettacoli di Michieletto, se non ci fossero i costumi sempre pertinenti di Carla Teti e il geniale impianto scenico di Paolo Fantin, capace di portare l’atmosfera dell’alluvione all’interno del teatro. Il palcoscenico vede due grandi pedane ai lati, che giungono fino all’inizio della platea, dove il coro resta fermo per tutta l’opera. Il centro è invece occupato da una grande parete di vetro, che si rempie piano piano di acqua, e sulla quale vengono proiettate immagini della laguna di oggi e di ieri. A mezz’ora dall’inizio questa grande installazione si alza ad alcuni metri e lascia cadere l’acqua, nel silenzio dell’orchestra per due minuti.

Un effetto spettacolare e di enorme suggestività. Pochi altri gli elementi in scena: un tavolo, simbolo del nucleo familiare, dove anche nel momento della tragedia si rifiugiano gli uomini della famiglia e da cui la vita riparte, quando l’aquagranda cala.
Uno spettacolo in cui l’immagine e il suono non potevano prescindere l’uno dall’altro e che ci viene da considerare come una installazione artistica ammirevole.
Alla fine grande successo da parte di un teatro aperto alle novità e all’arte viva e palpitante.
Francesco Lodola
Venezia, 13 novembre 2016