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©Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

Prima di raccontare quanto ho ascoltato e visto il 29 Gennaio scorso, mi sia concesso di spiegare brevemente le ragioni di una preferenza meramente personale. Chi non voglia leggere l’ennesima opinione sulle versioni di Don Carlo può tranquillamente saltare questo passaggio.
Credo che questa versione in cinque atti “stile opera italiana” sia quella tutto sommato preferibile, per due ragioni: primo, l’atto di Fontainebleau, malgrado abbastanza statico, è essenziale per comprendere (anche musicalmente) ciò che viene dopo. Molto più efficace è toccare con mano l’idillio perduto che per tutto il resto della partitura viene angosciosamente ricercato. Secondo, questo atto è di una bellezza straordinaria, il duetto tra Carlo e Elisabetta e il coro di boscaioli sono pagine che meritano di essere eseguite. La versione francese che pure contiene questa parte risulta abbastanza anacronistica e decorativa, questa invece è sempre sul dramma senza trascurarne parti importanti.

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©Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

Krassimira Stoyanova ha affrontato una delle parti più ardue del repertorio verdiano, e lo ha fatto con sicurezza, aiutata da una naturale bellezza e pienezza del timbro e da una certa eleganza nel fraseggio, anche se il registro basso appariva un tantino schiacciato.
Francesco Meli è molto maturato, anche la sua parte è pesante (è praticamente sempre in scena) e ha dimostrato di avere il peso vocale adeguato per Carlo, nonché una eccellente proiezione e un timbro rilucente.
Poi c’è il Rodrigo di Simone Piazzola, che possiede sicuramente la tecnica più curata e ortodossa di tutta la compagine. Un suono controllato e mai in gola lo aiuta nei passaggi dove la potenza della voce (a causa della grandiosa orchestrazione verdiana) viene un poco meno, senza tuttavia inficiare la bellissima performance.
Eboli era Ekaterina Semenchuk. Ha una voce molto chiara, ben distribuita su tutti i registri. Ha affrontato con sicurezza la canzone del velo, e ha offerto prova di grande tecnica nell’aria dell’atto IV.
Ferruccio Furlanetto è stato sostituito alla chetichella da Ildar Abdrazakov, che ci ha regalato una splendida lettura del personaggio complesso di Filippo II. Ha una voce profonda, di scuola Russa, ed estremamente potente. Bisogna aggiungere una perfetta dizione italiana, che in questo ruolo è quanto mai determinante (la scena dell’atto IV va anche recitata). Ha saputo rendere quel sapore chiaroscurale di un sovrano ora tagliente e autoritario, ora dimesso e fragile.

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©Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

Eric Halfavrson è intervenuto a sostituire in tutte le recite Orlin Anastassov per il Grande Inquisitore. Forse l’unico personaggio scolpito con precisione dalla regia, ha dato prova di eccellenti doti drammatiche, anche se la voce, un tantino sfibrata e affaticata, non era sempre a fuoco.
Vorrei ricordare pure la buona esecuzione di Martin Summer, dell’Accademia della Scala, nel ruolo del Frate, dal timbro scolpito e pieno.
Myung-Whun Chung è una sicurezza, e il suo Verdi è sempre interessante e ricco di spunti. Oltre al colore stupendo, pastoso e talvolta rilucente che ha conferito all’orchestrazione, è da segnalare l’intelligenza con cui ha accompagnato il palcoscenico, secondando i cantanti e calibrando gli equilibri fra le sezioni orchestrali per non sommergere mai le voci. Lo si è accusato di una conduzione lenta. Io ho trovato proprio questa lentezza (peraltro non eccessiva ne’ fastidiosa) la cifra determinante della sua lettura, un Don Carlo a ritmo di “marcia funebre”, lugubre e allo stesso tempo terribile e di forte impatto drammatico. Va ricordata anche la stupenda prova del coro.
Spiace dover constatare che, su tre regie operistiche viste di Peter Stein, ci sia poco nel complesso da apprezzare. E spiace perché si conosce il valore non trascurabile delle sue creazioni in prosa.

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Brescia/Amisano – Teatro alla Scala

Questo Don Carlo è risultato alquanto privo di idee per il palcoscenico che si distaccassero dalle effusioni e dagli strattoni convulsi reperibili in qualsiasi telenovela.
Le scenografie poi non hanno saputo rendere il vero clima in cui prende vita la vicenda, e hanno preferito collocarla in un anonimo fondo grigio-azzurrino. Esteticamente davvero scadente l’ambientazione del monologo di Filippo. L’inizio dell’opera, nella patina velata della neve e nei costumi diafani dei boscaioli, a contrasto con la viva fiamma del falò, voleva certamente essere un omaggio all’allestimento di Ronconi (almeno lo si spera), ed è risultato effettivamente l’unico momento centrato.
Belli invece i costumi, ma l’idea di una ambientazione geometrica e anonima in costumi d’epoca era già stata dell’allestimento di Stephàne Braunschweig.

Teatro abbastanza pieno, che ha riservato le sue punte di entusiasmo per Meli, Abdrazakov e Chung.

Stefano de Ceglia

Milano, 29 gennaio 2017

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