“Tosca” è un’opera che richiama il grande pubblico, che accorre in teatro, soprattutto quando viene presentata una produzione con interpreti di ottimo spessore, con a capo una Floria Tosca di prestigio.
Sul podio Antonino Fogliani dipinge una Tosca molto teatrale, con sonorità importanti (talvolta forse troppo) e giusto senso dei fraseggi, accompagnando bene i cantanti. L’Orchestra dell’Arena di Verona lo asseconda benissimo, così come pure il magnifico coro diretto da Vito Lombardi, a cui si affiancava il coro di voci bianche A.d’A.Mus diretto da Marco Tonini.
Bene Stella Capelli (un pastorello), Daniele Cusari (Un carceriere), Andrea Cortese (Sciarrone) e Antonello Ceron, uno Spoletta di grande esperienza. Ben timbrata la voce di Gianluca Lentini (Angelotti), così come di grande rilievo la prestazione di Mikheil Kiria, voce importantissima da tenere d’occhio e da impiegare anche in ruoli più importanti. Giovanni Meoni è un cantante di grandissima intelligenza ed è uno Scarpia assolutamente personale. Non imita né lo Scarpia dalla voce oceanica di Giangiacomo Guelfi, né quello truce di Tito Gobbi, che in tanti hanno provato ad imitare, senza capirne la vera lettura.
Meoni è uno Scarpia insidioso, pungente, nobile, che canta sempre, senza lasciarsi andare ad accenti sopra le righe. Vince con l’eleganza del fraseggio e l’attenzione alla parola. Fa effetto nella sua entrata (grazie ad uno dei momenti più riusciti della regia) e si gioca bene il II atto, nonostante questa volta la regia non lo aiuti per nulla. Murat Karahan si riconferma un tenore di grandissime qualità. Ha la baldanza e l’energia per essere un Mario Cavaradossi pieno di ardore. Il suo “Vittoria” e in precedenza la terribile frase “La vita mi costasse” sono state vincenti per lo squillo e la grande sicurezza in acuto. Non dimentica che il personaggio è un innamorato e quindi sa essere dolcissimo, con accenti raccolti di grande effetto. “E lucevan le stelle” spicca per la morbidezza delle mezzevoci e l’intensità profusa. Il suo Mario è un eroe romantico pieno di giovanile ardore.
Fiorenza Cedolins ritornava a Verona, con la sua Floria Tosca, un ruolo di cui in Arena ha dato un’interpretazione paradigmatica, nello spettacolo bellissimo di Hugo de Ana. La sua è ancora una grande Tosca per l’interpretazione e la varietà di accenti. Teatralmente il soprano è efficacissima nel giocare il ruolo della Diva, per poi passare ad essere teneramente innamorata e evidentemente ingenua. “Vissi d’arte” e il finale risultano i momenti migliori, dove rifulge al meglio la maestra del fraseggio. Ogni sguardo e ogni gesto è impressionante tale è l’immedesimazione nel personaggio.
Veniamo allo spettacolo firmato interamente da Giovanni Agostinucci. Si tratta di uno spettacolo lineare ma non sempre . Le scene sono quasi del tutto disadorne. Nel I atto abbiamo dei veli che cadono dall’alto, che spariscono con un bell’effetto nel momento dell’entrata di Scarpia. Il momento del Te Deum è efficace, certo forse gli manca la grandiosità di altri allestimenti, ma calca più sulle tenebre che avvolgono la religiosità ambigua di Scarpia. Nel II atto ci troviamo in una vera e propria sala delle torture, con due omoni che intrattengono Scarpia, facendo quella che vorrebbe essere una lotta greco-romana, ma con abiti che rimandano alla tipica lotta turca, in un contesto che rimanderebbe più all’epoca nazi-fascista che non al 1800. Nel III atto si ritorna in una Tosca più tradizionale, anche se i soldati all’inizio paiono fare dei movimenti un po’ bizzarri e poi sorpresa: Tosca non si butta da Castel Sant’Angelo. Sale fino al parapetto, poi cambia idea, le manca il coraggio (come fa a mancare il coraggio ad una donna che ha compiuto un omicidio?), si getta contro i soldati, prende le canne di due fucili e si pugnala, per poter morire accanto al suo Mario.
L’uccisione di Cavaradossi è nascosta al pubblico, e Mario viene fucilato di spalle, come si usava con i traditori. il corpo viene portato in piedi davanti a Tosca. Dopo che il corpo è caduto e un rivolo abbondante di sangue scivola lungo il muro finalmente Tosca capisce che il suo Mario è morto davvero, dimostrando una ingenuità, forse troppo esagerata nella caratterizzazione registica. Il problema dello spettacolo era la mancanza in alcuni momenti di coerenza. L’intuizione della sala delle torture era una buona idea, che poteva rimandare alla lunga sequenza della tortura di Manfredi (Marcello Pagliero) in “Roma città aperta”. Non era certo innovativo ambientare tutto durante il ventennio fascista, ma almeno sarebbe stato tutto più coerente. Dio solo sa quanto sono importanti in teatro i costumi. Certe volte possono salvare tutto. Qui non erano bellissimi, soprattutto quello di Tosca del II atto, che non era coerente con l’ambientazione napoleonica.
Grande successo per tutti e acclamazioni per il trio dei protagonisti, con “Happy Birthday” intonato dall’orchestra per il compleanno di Fiorenza Cedolins.
Francesco Lodola
Foto Ennevi per gentile concessione Fondazione Arena di Verona