Murat Karahan è uno di quei tenori che conquistano, sia con l’ardore del suono, del timbro privilegiato, che con l’eleganza del fraseggio. Il pubblico dell’Arena di Verona ancora non si è dimenticato di quella Pira (in tono), così emozionante, travolgente. Non se la dimenticherà neanche il pubblico di Parma, assai difficile, ma che è stato conquistato. In questi giorni il tenore turco è stato Mario Cavaradossi al Teatro Filarmonico di Verona, e anche qui è stato un grande successo. Successo che è frutto di grande studio e di grande umiltà, davanti al canto e al pubblico. Abbiamo avuto il piacere di intervistarlo in questo ultimo impegno veronese, prima dei bellissimi impegni che lo aspettano nei prossimi mesi….
Come ti sei avvicinato all’opera e allo studio del canto lirico?
E’ una storia molto interessante, che mi piace raccontare sempre quando me lo chiedono. Non ero interessato all’opera, cantavo così per fare, per me stesso. Quando ho finito la scuola superiore e stavo iniziando l’università, mia mamma ha insistito perché io iniziassi a studiare canto, per diventare un cantante d’opera. Mi disse: “ti prego, fallo per me!”. Il primo anno di conservatorio non sono andato a lezione. Il secondo anno dopo altre insistenze di mia madre, l’ho ascoltata e sono andato. Non ero felice, perché non sapevo perché ero lì e cosa dovevo fare. Mia mamma, che non mi vedeva contento, mi disse: “tu diventerai una stella mondiale e un giorno ti scuserai di esserti lamentato così”. Ho finito il conservatorio e immediatamente l’Opera di stato di Ankara mi ha preso come solista. Durante la mia prima prova all’italiana, dopo aver cantato la mia aria e tutta l’orchestra mi ha applaudito. Sono tornato a casa, ho abbracciato mia mamma e ho iniziato a piangere, ringraziandola. Ho capito in quel momento che fare questo mestiere era la cosa migliore del mondo. Grazie all’aiuto di tutta la mia famiglia (che mi è sempre accanto), ho immediatamente deciso di andare a Roma, per studiare con Renata Scotto all’Accademia di Santa Cecilia. Lì oltre che con la signora Scotto, ho avuto il piacere di studiare con Bruno Cagli per tre anni. A Roma la mia testa è incominciata a cambiare. Ho iniziato a pensare al canto secondo la scuola italiana. Da quel momento, giorno dopo giorno, non mi sono più fermato.

Qual è stato il percorso di costruzione della tua voce?
Tecnicamente ho costruito tutto da solo, ascoltando Placido Domingo, Luciano Pavarotti e imparando come fare da loro. Il mio insegnante in Turchia veniva da quella scuola di canto, possedeva ottima tecnica e un ottimo legato. Un giorno venne da me e mi disse:” Io ti ho insegnato tutto quello che dovevi sapere, ora guarda Pavarotti, Domingo, i grandi tenori, impara da loro e metti in pratica”. Ho imparato da loro: l’appoggio del suono, la facilità degli acuti di Pavarotti, e la capacità teatrale di Domingo. Purtroppo non ho potuto conoscere Pavarotti, ma il mese scorso ho avuto la gioia di conoscere Domingo. Ho pianto solo tre volte nella mia vita: la prima volta con mia mamma, la seconda volta dopo “Di quella pira” all’Arena di Verona e la terza volta quando Domingo mi ha detto il mese scorso: “ci sono pochi artisti che mi hanno fatto commuovere nella mia vita, tu sei uno di questi”. Non ho potuto trattenere le lacrime.
Quali sono gli insegnamenti di Renata Scotto che ti porti nel cuore e che ti ritornano alla memoria mentre studi?
Renata Scotto è una persona adorabile e le voglio tantissimo bene. Mi ha sempre incoraggiato a migliorarmi. Anche dopo un’esibizione dove il pubblico mi aveva applaudito molto calorosamente, con grida di “bravo”, lei mi diceva:” bravo! ma….”. Accanto a lei c’era sempre il marito, Lorenzo Anselmi, grande violinista dell’Orchestra del Teatro alla Scala, che mentre Renata mi parlava, mi faceva segno da dietro di quanto ero stato bravo. Sono una coppia meravigliosa e io li adoro.

Se si cerca il tuo nome su YouTube si trovano tue registrazioni di un repertorio che va da “La fille du régiment”, “Dom Sébastien” , “Lucia di Lammermoor”, fino a “Il Trovatore” e a “Tosca”. Come fai a gestire un range così eclettico di ruoli?
Il video dell’aria di “Dom Sébastien” ha una storia molto interessante alle spalle. Ero a Santa Cecilia e Renata voleva che io cantassi un repertorio lirico-leggero, per non appesantire la mia voce e per insegnarmi a fare quel legato, tipico del canto all’italiana. Sono una voce flessibile e non mi costa fatica cantare un repertorio più leggero. Nel duetto con il soprano in “Lucia di Lammermoor” ho cantato il Mi sovracuto. Quando sono arrivato a Roma avevo dei problemi con le note di passaggio (Fa# – Sol) e ho risolto lì i miei problemi, grazie a Bruno Cagli. Lui non ha mai cantato nella sua vita. E’ un grande musicologo. Tuttavia mi diede degli esercizi che mi hanno aiutato moltissimo. Finita la sessione di studio all’Opera Academy di Santa Cecilia, mi chiese di rimanere altri quindici giorni e risolvemmo tutti i problemi del mio registro di passaggio. Anche oggi non si avverte nella mia voce nessun cambio di colore tra il registro centrale e quello acuto. L’appoggio e il passaggio sono la base del canto. Solo oggi ho iniziato ad utilizzare con cautela anche l’emissione di petto. Dopo l’esperienza a Roma sono tornato in Turchia, cantando come mi avevano insegnato Scotto e Cagli. Dopo due anni ho iniziato a cantare anche un repertorio più lirico. Se un teatro oggi mi offrisse Lucia o “I Puritani” accetterei, perché non c’è una classificazione per la mia voce, sono un tenore e questo basta. Pavarotti cantava tutto il repertorio con la sua voce, grazie ad una grande tecnica e un’ottima emissione.

Manrico ne “Il Trovatore” è stato il ruolo che ti ha aperto tante porte, soprattutto nei teatri italiani, l’Arena di Verona e il Teatro Regio di Parma….
Il secondo anno all’Accademia di Santa Cecilia, Renata Scotto mi disse:” Murat, perché non canti Il Trovatore?”. Io rimasi stupito, perché lo consideravo un ruolo troppo drammatico. Lei mi spiegò che Manrico non è per una voce drammatica, si tratta di un diciottenne, un ragazzo giovane. E’ stata la prima persona a vedere Manrico in me. Lei è sempre stata una diva intelligente, che era perfettamente consapevole di quello che faceva. Ho dunque cominciato a studiare il ruolo. Un anno dopo ero a Riga, una città a cui sono legato molto, e il direttore Andrejs Zagars (una persona molto importante per me), dopo un concerto insieme alla mia cara amica Oleysa Petrova, un bravissimo mezzosoprano, ci chiese se volevamo fare Manrico e Azucena ne “Il Trovatore”. Da lì ho cominciato a cantare “Il Trovatore” dovunque.
Manrico è un personaggio che spesso viene trascurato……qual è la tua interpretazione del Trovatore?
Manrico è il ragazzo che mi ha fatto diventare Murat Karahan (ride). Spesso mi hanno domandato (soprattutto a Parma) se Manrico è più un eroe o un innamorato. Io penso che sia entrambe le cose, non si può scegliere tra questi due lati. E’ un eroico innamorato. Per interpretarlo mi hanno ispirato le figure eroiche di cui la storia turca è piena. Lo sento vicino a me, perché lui è capace di sacrificare qualsiasi cosa per l’amore di Leonora e anche per la donna che lui pensa essere sua madre.

Anche Cavaradossi è un eroico innamorato….
Cavaradossi è un altro ruolo che sento veramente affine a me. E’ facile per me essere Cavaradossi, Manrico e anche Des Grieux in “Manon Lescaut” di Puccini. Probabilmente Des Grieux può essere visto come uno stupido, ma ha la straordinaria capacità di saper perdere tutto, per il suo amore. Per esempio non mi sento a mio agio nel Duca di Mantova di “Rigoletto” o Alfredo ne “La Traviata”. Ho cantato Alfredo tantissime volte, e ovviamente cerco di essere il più possibile il personaggio, ma non è vicino a me come personalità. Un altro ruolo che mi ha aperto la possibilità di cantare ruoli più spinti è stato Don José in “Carmen”, che ho cantato a Mosca. Ho sentito in quel ruolo la possibilità di dare più corpo alla mia voce e l’ho assecondata. Ho sempre aspettato però prima di fare delle scelte, non mi sono mai fatto trascinare, ho sempre seguito i bisogni della mia voce.
Nell’ottobre 2016 il tuo Manrico è approdato al Teatro Regio di Parma per il Festival Verdi. Qual è stata l’emozione di misurarsi con Verdi nella sua terra?
Cantare a Parma è stato faticoso, ma molto importante per me. In quel teatro il pubblico canta i recitativi con te e quindi non hai la possibilità di sbagliare niente. Siamo umani e quindi questo è impossibile, ma Parma devi essere del tutto pronto. Se non lo sei è meglio non andare. E’ stato intenso lavorare lì, ma tutte le recite sono state bellissime.

Prima di Parma c’è stato il grande trionfo all’Arena di Verona…sempre con “Il Trovatore”….
L’Arena di Verona è stato il momento più emozionante per me. E’ stato incredibile. Lo spettacolo era quello meraviglioso firmato da Franco Zeffirelli. Quando studiavo guardavo i video degli spettacoli di Zeffirelli e poi nel 2016 ero lì, in mezzo a quelle scene meravigliose, con colleghi stupendi, Daniel Oren sul podio, Hui He (Leonora), Violeta Urmana (Azucena) e Simone Piazzola (Conte di Luna). Mentre ero lì pensavo ai tenori che avevano fatto Trovatore su quel palco: Pavarotti, Bonisolli….Dopo la pira il pubblico ha cominciato a chiedere il bis ed è stato entusiasmante.
Nell’estate 2016 sei stato Manrico anche a Macerata. Quali sono le difficoltà di cantare all’aria aperta?
Non ci sono difficoltà, anche se a Macerata c’era molto vento. Lo Sferisterio è uno spazio enorme e Manrico per ragioni di regia era sempre in scena con il vento in faccia e l’umidità. E’ stato difficile ma molto bello.
Nella Tosca che hai cantato recentemente al Teatro Filarmonico di Verona hai avuto accanto Fiorenza Cedolins, una partner di grande esperienza. Qual è l’arricchimento di avere in scena colleghi di questa portata?
Fiorenza è Tosca. Non devi fare niente di più, devi solo unirti a lei. E’ stata una grande gioia e un grande onore. E’ una vera diva, l’ultima vera diva italiana in carriera. Lei sa quello che deve fare, è tranquilla. A stare con lei sul palcoscenico ti diverti, perché ti aiuta con la sua assoluta sicurezza. E’ stata molto gentile con me e si è creata una bella squadra. In questa produzione di Tosca si è creata una bella sintonia anche con il regista Giovanni Agostinucci e sua moglie Giovanna, che è stata un angelo per me. Lei parla benissimo inglese e mi ha spiegato le cose quando non capivo e per questo la ringrazio molto. Voglio ringraziare anche il magnifico staff tecnico del teatro, il coro e il bravissimo direttore d’orchestra, Antonino Fogliani. E’ stato bellissimo e sono felice di come è andata. Quando ritorno a Verona mi sento sempre come a casa. Mi succede così anche a Riga. I veronesi mi hanno dato grandi dimostrazioni di affetto e io li amo. C’è una grande chimica tra me e la gente di questa città.
Sia nel Trovatore di Parma che in questa Tosca veronese ti sei confrontato con produzioni che non sempre erano nella tradizione…
Il Trovatore di Parma era una produzione molto particolare, mentre in questa di Verona si poteva adattare bene alla mia interpretazione di Mario. Ho trovato i costumi di Cavaradossi molto belli e la visione del regista molto interessante.
Quali saranno i tuoi prossimi debutti e impegni….
I prossimi interessanti debutti saranno Calaf in “Turandot” al Teatro Verdi di Salerno con Daniel Oren sul podio, e poi affronterò “Siberia” di Umberto Giordano con Sonya Yoncheva a Montpellier in una versione di concerto. Prima però sarò al Teatro di San Carlo di Napoli per “Manon Lescaut” (che riprenderò anche a Mosca) e “Il Trovatore”. Sarò anche Ismaele in “Nabucco” alla Bayerische Staatsoper di Monaco, Don José in “Carmen a Los Angeles, Pinkerton in “Madama Butterfly” alla Wiener Staatsoper e Manrico ne “Il Trovatore” a Berlin Deutsche Oper. I ruoli dei miei sogni erano cinque, ne ho già affrontati tre: mancano Calaf e Radames in “Aida”.

Come studi un ruolo nuovo?
Io parlo poco italiano, e non bene come l’inglese. Quindi la prima cosa che faccio è studiare le parole e capirne il suono. Per questo ho bisogno di un pianista italiano che mi aiuti. Renata Scotto mi ha insegnato a non imparare mai un ruolo a orecchio. Se studi una parte ascoltando qualcun altro, ne assorbirai tutti i difetti e gli errori. Questo è perché inizio a studiare prima di tutto leggendo la musica, poi dopo metto la musica. Se faccio dei piccoli errori di italiano all’estero, nessuno se ne accorge, se li faccio in Italia tutti li percepiscono. Per questo amo cantare in Italia, perché sono stimolato ad arrivare ai migliori risultati, anche per quanto riguarda la dizione. Gli errori sono naturali, ma devono essere il meno possibile. So bene che in Arena non tutto era perfetto, mentre a Parma era molto meglio, e così anche in Tosca. In Puccini si richiede un canto di conversazione pieno di accenti e quindi cerco di dare in ogni parola tutta l’emozione che sento e che viene richiesta. Quando ho cantato “Manon Lescaut” a Riga sono stato aiutato moltissimo da Massimiliano Bullo, maestro collaboratore del Teatro alla Scala. Amo il ruolo di Des Grieux e sono contento di poterlo riprendere a Napoli, così posso perfezionare ulteriori dettagli. Con Puccini tutto è difficile, ma facile allo stesso tempo. Sento la melodia di Puccini dentro alla mia anima. Molta musica di Tosca è simile alle melodie turche.
In bocca al lupo Murat e Grazie!
Francesco Lodola