
Se uno spettatore comune pensa a Carmen, pensa subito ad pastiche di musica francese ispirata al folklore spagnolo in cui non si fa altro che ballare flamenco e battere nacchere. C’è magari un asinello, dei cavalli, delle oche. Bene. Carmen non è questo. O almeno non può essere solo questo. Le danze e i colorati da tableaux vivants zeffirelliani sono affascinanti, suggestivi soprattutto in location come l’Arena di Verona, dove lo scavo registico forse ha dei limiti. Carmen è la storia di un femminicidio, l’uccisione di una donna che non sopporta le costrizioni sociali e che nata libera, vuole morire nella stessa condizione. La sua libertà non è però uguale a quella di Adina dell’elisir d’amore: “come chiodo scaccia chiodo”. È una libertà a 360°: sociale, amorosa, fisica, sessuale, intellettuale. Carmen è l’anarchia del pensiero. Carmen è una donna che subisce e fa violenza. Calixto Bieito, regista di questo allestimento, vede tutti i personaggi di Carmen avvolti nella violenza e dunque abituati a vederla, subirla, esercitarla. L’ambientazione (scene di Alfons Flores e costumi di Mercè Paloma) sembrerebbe genericamente ispanica, ma potrebbe essere ambientata dovunque, anche se non mancano i riferimenti alla Spagna, come la bandiera issata nel primo atto e il toro di Osborne, che alla fine del terzo atto cade a terra, dando l’attacco alla travolgente entr’acte del quarto.

Lo spettacolo, consigliato ad un pubblico adulto, vedeva scene in cui il sesso era mimato esplicitamente, come quando Zuniga (Francesco Salvadori), si cala le mutande nel secondo atto e Mecédès gli offre del sesso orale dietro la macchina. Il terzo atto vedeva un momento altamente poetico, con un soldato che nella scena deserta si spogliava di tutti i vestiti e rimanendo completamente nudo mimava le pose e i gesti di un torero. La scena è stata accolta da stupidi versacci e risate, soprattutto femminili, come se nessuno avesse mai visto un nudo maschile. La volgarità è in chi guarda e di certo la volgarità abbietta non si trova nell’arte. Sì, lo spettacolo di Bieito è arte, e il fatto che dopo quasi vent’anni accende ancora le discussioni delle pure anime scandalizzate dei melomani, significa che l’obiettivo è stato centrato. Che cosa è il teatro se non riflessione ed emozioni diverse? Non avevo mai sentito nel duetto finale quella sensazione di un coltello puntato alla schiena. Questo grazie anche ai due protagonisti.

Il cast vocale radunato per l’occasione era di ottimo livello e eccelleva soprattutto dal punto di vista teatrale. Nei ruoli di fianco bene si comportavano Francesco Salvadori (Zuniga) e Matteo Ferrara (Moralès). Le coppie Mercédès e Frasquita e Dancaïre e Remendado erano interpretati rispettivamente da Laura Verrecchia, Claudia Pavone, Armando Noguera e Löic Fèlix. Lillas Pastia interpretato da Cesare Baroni diventa un personaggio centrale, un Deus ex machina, che sembra uscito da una pellicola di Pedro Almòdovar o di Paolo sorrentino.

Finalmente Micaëla grazie a Bieito acquista il suo giusto peso, e non resta la solita “cretina” vestita da fata turchina, che fila i suoni e sta lontana da José, come se ne avesse paura. Qui è una ragazza di buona famiglia, innamorata ma non ingenua, frivola ma non tonta. Lei sa che può far leva sul sentimentalismo per convincere José. Apoteosi il momento del terzo atto quando dopo aver convinto il buon dragone ad andare con lei (sempre utilizzando l’amore materno come arma), Micaëla si rivolge a Carmen, e con un sorriso sfrontato le fa il gesto dell’ombrello. Il peso che Micaëla acquista lo dobbiamo anche all’interpretazione digli Ekaterina Bakanova, interprete sempre interessante. Il soprano dona a Micaëla, anche fisicamente, una bellezza intensa, coronata da questi capelli rossi alla Rita Hayworth. Vocalmente è delicata quando deve esserlo, ma sa essere anche più pugnace, all’interno di una visione musicalmente inappuntabile.

Roberto Aronica è un Don José che seconda bene l’evoluzione del suo personaggio e che sfoga nel finale tutta la sua violenza pregressa. È il classico figlio di buona famiglia, che lontano da casa sfoga la sua violenza interiore, accumulata negli anni in cui ha dovuto fingere di essere il figlio modello. Il tenore vocalmente lo affronta spavaldamente e non lesina a sforzarsi di sfumare a dovere. Sicuramente I passi la vocalità realmente lirico-spinta (l’unica italiana di oggi) di Aronica trova i momenti migliori nel terzo atto e nel quarto dove è travolgente, grazie alla complicità con Veronica Simeoni.

Chi desidera una Carmen “alla” Cossotto e e “alla” Obraztsova, tutta decibel e velluto, non vada a Venezia. La Simeoni è una belcantista e costruisce la sua Carmen, in maniera del tutto personale. È ironica più che sensuale, È più uno spirito intellettuale libero che una donna sessualmente libertina. Il mezzosoprano è una cantante attrice, che sa perfettamente come agire sulla scena. Vocalmente è elegantissima e gioca con gli accenti in maniera affascinante, tanto da essere quasi ipnotica nella scena delle carte. Interpretazione questa, che abbiamo amato molto.