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©Brescia-Amisano/Teatro alla Scala

 

Questo Marzo-Aprile è stato un periodo di ritorni travagliati, qui in Scala. Il breve resoconto arriva in coda alle già molte reazioni per la Bolena scaligera, e con rammarico aggiunge al coro pressoché unanime di dissensi.

Una produzione nel complesso mal amalgamata, dove anche i pochi punti di forza vengono scancellati da un livello generale piuttosto basso. Sembra quasi inutile ribadire cose già dette e scritte, pertanto ci soffermeremo poco su una produzione che conviene gettare senza esitazioni nel baule targato “oblio”. Si è trattato di un inciampo, e nulla più.

La compagine di canto è traballante, sostenuta a tratti dalla prestazione discreta di Piero Pretti, dalla voce ben proiettata e dai centri ampi e pieni e Sonia Ganassi, che malgrado qualche difficoltà nei bassi, dove è costretta a schiacciare un poco, rivela ancora una voce luminosa in acuto e un buono studio.

 

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©Brescia-Amisano/Teatro alla Scala

Non così purtroppo la protagonista, Hibla Gerzmava. La parte le sta enormemente larga, e la sua Bolena appare spesso sfocata, smagliata e in difficoltà in molti punti. Ha tuttavia una voce abbastanza potente.

 

Delude anche Carlo Colombara, ed è questo il tratto più inaspettato, giacchè si conosce il suo valore artistico e si ricordano sue performances di grande pregio. Ha sempre un bel timbro bruno e profondo, con una eccellente dizione e una buona capacità scenica. Tuttavia ha trovato numerosi ostacoli nel fraseggio e una voce piuttosto incavernita.

Ion Marin ha condotto i complessi in maniera globalmente anonima, trascurata. Soliti tagli di rigore (necessari in questo caso, ma è allora proprio indispensabile fare Bolena in queste condizioni?), orchestra piuttosto sgangherata e qualche fracasso di troppo. Buoni, nel complesso, i cantabili, ma il complesso cede nelle strette e nelle cabalette, davvero tirate via a suon di banda (con il massimo rispetto per chi alla banda si dedica davvero e con serietà).

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©Brescia-Amisano/Teatro alla Scala

Certamente i solisti non sono stati aiutati dalla produzione di Marie Louise Bischofpberger, che mette in scena una novità: scenografie moderne e costumi d’epoca. Peraltro, nemmeno troppo, se i carcerieri compaiono vestiti da addetti alla sicurezza da grande magazzino e il costume di Enrico è un mantello rosso tipo vestaglia con sotto una camicia nera. Taccio, perché se ne è già scritto, degli spilloni à la Mondella per Anna. Quasi assente la dinamica scenica, ridotta a gesti superficiali e fuori luogo. Tetre e scialbe le scenografie, di cui ho nondimeno trovato relativamente suggestivo un dettaglio, il cielo grigio (mi pare finale atto I), mi ha ricordato l’Inghilterra, con le giuste tonalità. Ma questo lo aveva fatto, e molto meglio, Downton Abbey.

Stefano de Ceglia

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