17903617_10154664632348165_6752031576845613795_nNei golfi più riparati delle repliche, La Gazza Ladra sembra riscontrare, a differenza dei tumulti che hanno animato la prima (peraltro, in un certo senso postivi, il teatro è “vivo”, anche nelle sue opinabili faziosità) una approvazione condivisa. E’ sicuramente un allestimento interessante e di ottimo livello artistico, anche se rimane, almeno da parte di chi scrive, quel senso di “diaframma” con il genere; nella assoluta bellezza e genialità della musica, si fatica a seguire la trama, che pare svilupparsi su una drammaturgia traballante, sproporzionata rispetto al fatto in sè: ma naturalmente si tratta di distanza cronologica da una tipologia drammatica, quella del dramma semiserio, che, malgrado le riflessioni di Carl Dahlhaus sulla sua sostanza borghese, appare esteticamente lontana e di approccio a tratti faticoso.

18034144_10154676653933165_2291029255199602764_nIl cast era assolutamente di primo ordine, coronato dalla voce della protagonista, Rosa Feola, che per molti versi ha fornito una prova da tempo inascoltata in Scala: infatti, vocalità piena ma agile, ci ha presentato una ottima dizione, dove le “i” sono “i” e non “u”, dove le “e” sono “e” e non “o”, coniugata a un fraseggio di gusto ed eleganza. Godibilissime nonché intelligenti le variazioni scelte per il daccapo della cabaletta.

Edgardo Rocha è risultato del pari convincente: possiede una bella voce, di volume non enorme ma gestita con cura e consapevolezza. Il personaggio di Giannetto si è valorizzato del suo timbro chiaro, luminoso, con acuti brillanti e rotondi, ha costituito una risorsa preziosa.

FeolaIl Pippo di Serena Malfi è di voce calda e di buon senso melodico e di intonazione, notevole il registro medio-basso.

Tra i migliori della compagnia è necessario citare Paolo Bordogna, la cui voce si proietta in modo eccellente lungo la sala, ha una tinta scura affascinante e una scuola ferrea, come pure Alex Esposito, che alle doti tecniche che già si conoscono-canto curato, fine e un colore deciso e pastoso, ha unito una capacità scenica coinvolgente, in un ruolo interessantissimo per gli sviluppi futuri della drammaturgia operistica.

Ha del pari convinto Teresa Iervolino, nel ruolo piccolo ma delizioso (che meraviglia l’aria del secondo atto) di Lucia, con la sua voce ben disposta su tutti e tre i registri.

18199398_10154722500748165_5324126313715774563_nGottardo ha segnato il ritorno di Michele Pertusi al Piermarini, dopo l’Elisir d’amore. E’ un artista di vaglia, dal canto sicuro e rodato. Qualche svista nei tempi (ma i tempi non sono colpa sua) non ha inficiato una performance nel complesso assai convincente, nella abilità di rendere i due caratteri del personaggio, che risente forse più di tutti del “giro di boa” fra primo e secondo atto; ridacchia tronfio e sornione nella sortita, le note lievi e cesellate, e avvampa di libidine e rabbia nella grande aria del carcere, un portamento temibile.

Una menzione doverosa per Francesca Alberti, la nostra gazza, che ha tenuto col fiato sospeso durante tutte le sue acrobazie, e per le marionette (simpatiche, sottili e sempre collocate al posto giusto dalla regia) dei fratelli Colla.

18199182_10154704229063165_7382085374413437974_nL’elemento critico è risultato effettivamente la conduzione di Riccardo Chailly. Tra i risultati del direttore musicale, questo è senza dubbio il meno riuscito. La preparazione dei complessi è al solito buona, come pure il suono e la precisione. Tuttavia la lettura ha lasciato molte perplessità: c’è un senso di distacco meccanico (che non è la puntualità assoluta con cui-come molti sostengono-Rossini va eseguito), di anonimo languore o clangore, a seconda dei momenti drammatici; i colori si individuano, ma esalano dalla buca come annacquati, sbiaditi.

Non delude affatto invece la regia di Gabriele Salvatores, intelligente, pungente e ben realizzata. Ha compreso appieno il doppio carattere dell’opera, e a un umorismo sincero e casereccio nel primo atto ha saputo contrapporre le tenebrose atmosfere che seguono. E’ sembrato di capire che il regista concepisce il palcoscenico come spazio “funzionale”: tutto dopo l’ouverture, che esorcizza con sagacia il collegamento noioso e liso “musica di Rossini = marionette”, tutto è già pronto, in una forma tuttavia schematica, dove viene concesso risalto agli elementi che servono effettivamente: la campana, la gazza, le posate, la gabbia, i quali risaltano da una scenografia per il resto essenziale, pulita, quasi antiestetica verrebbe da dire; 18342582_10154722500908165_157534355423565484_nsicuramente depurata da quel senso di “maniera bucolica” (la favoletta a sfondo felice della gente semplice e di rustica tenerezza, visione del resto non inappropriata, Stendhal forse ne sarebbe stato entusiasta) che ha contraddistinto a lungo le messinscene del titolo. E ciò consente di porre in primo piano l’azione nuda, cioè di evidenziare l’inarrestabile ingranaggio rossiniano. Ma questa politezza “razionale” non rinuncia a suggestioni fiabesche o surreali: la gazza deus ex machina, intuizione peregrina forse ma seducente, gli insiemi di contemplazione, o ancora il finale, che rispecchia in modo autentico e schietto il rivolgimento drammatico, Ninetta protagonista di una marcia al patibolo e immediatamente dopo di una processione festevole.
Il linguaggio immediato e curatissimo di Salvatores(si capisce che, come lui stesso ha dichiarato più volte, voleva rimettere le mani in pasta nella polvere teatrale) realizza in tal modo un esempio, a mio avviso, di regia intelligente, dove la firma d’autore rimane esplicita ma non disturba e non svilisce la musica.

Stefano de Ceglia

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