“La Traviata” alla Fenice é uno dei sogni di ogni amante della musica. Poter per una volta sentire la musica lí dove è nata è uno dei feticismi melomaniaci più comuni. Soprattutto trattandosi di quella Violetta, che attraverso tutte e sette le arti (cambiando nome e aspetto) è diventata un mito, un’icona. Robert Carsen sgombra ogni dubbio: Violetta è una puttana. Non è Gilda e non è Leonora de “Il Trovatore”. Non c’è nessun atto eroico e nessuna redenzione. Lei è una vittima, della società di ieri e di oggi. Quante volte ci sediamo a teatro aspettando che Madamigella Valery rinunci al suo amore e muoia. Dunque anche noi siamo come Papà Germont: costringiamo una prostituta a rinunciare a vedere una via diversa dal passato. Questo Carsen ce lo dice nel finale, mentre Violetta esala gli ultimi respiri e il pubblico viene illuminato, come se fossimo puntati tutti. Tutti colpevoli allo stesso modo. Lo spettacolo del regista canadese che è ormai un grande classico, si muove su un binario teatrale che si impone di raccontare la storia con lucidità e ritmo.
Non manca un certo simbolismo, legato soprattutto al denaro. Le banconote che diventano foglie del paesaggio agreste del II atto, e che diventano terra su cui piangere nella scena della borsa. L’altro tema è la solitudine, che raggiunge il suo apice nel III atto, con quella televisione accesa, unica compagnia in una casa di una donna che era già morta prima di essere viva. Belle le scene ed i costumi di Patrick Kinmonth, perché moderno non vuol dire brutto, e neanche sciatto. Si capisce che questo spettacolo vada in scena ormai da dieci anni, quasi ininterrottamente.
Sul podio avevamo la direzione ispiratissima di Diego Matheuz, capace di illuminare i dettagli orchestrali di grande poesia, ma anche di grande drammaticità. Talvolta forse tende a prevaricare sul palcoscenico, ma è bravo a tenere sempre ben connesso il tutto, non concedendo nulla alla melensaggine, ma concentrandosi sulla teatralità e sul respiro drammaturgico. Eccellente sotto la sua guida l’orchestra e il coro del Teatro La Fenice, quest’ultimo diretto dal Maestro Claudio Marino Moretti.
Bene la nutrita schiera dei ruoli di fianco, da Mattia Denti (Dottor Grenvil), Matteo Ferrara (Marchese d’Obigny), Armando Gabba (Barone Douphol), Iorio Zennaro (Gastone) a Sabrina Vianello (Annina), con in testa la sonora e brava Flora di Elisabetta Martorana.
Luca Grassi è un baritono di ottime doti, anche dal punto di vista scenico. Peccato che il timbro non sia di quelli baciati dal cielo e qualche volta l’intonazione non sia proprio adamantina nel registro acuto. Tuttavia si muove bene nello spettacolo, pur non avendo quella austerità che converrebbe al personaggio.
Piero Pretti è un Alfredo meraviglioso, a cui giova il timbro solare e la spigliatezza dell’interprete. Il tenore sa assecondare con eleganza l’aria del II atto e la cabaletta (in cui molti cascano), per poi sfogare a dovere nella scena della casa di Flora e utilizzare una paletta di sfumature efficace nel finale. Pretti disegna anche scenicamente un personaggio che rifugge dalla tradizione che vede Alfredo come un “tontolone”, ma gli regala uno spessore di innamorato romantico, degno di stare accanto alla sua Violetta.
La voce di Jessica Nuccio e soprattutto la sua Violetta la conosciamo bene (Qui la recensione della Traviata veronese del 2015), e ce ne siamo innamorati già in passato. Qui abbiamo trovato un’interpretazione ancora più matura e per qualche aspetto anche diversa, come è giusto. La Nuccio non è mai stata un soprano di coloratura, ma ha sempre avuto uno spessore lirico che la porta ad onorare il canto di agilità con grande brillantezza (Sempre libera era sicuro e coronato da un grande sovracuto), ma soprattutto a brillare nel canto sfumato. Raramente abbiamo sentito un “Ah, fors’è lui..” più sospiroso e malinconico. Ma il capolavoro di questa interpretazione resta il III atto, in cui le bellissime frasi vengono illuminate come si conviene ad una grande interprete, e poi l’Addio del passato (completo di tutte e due le strofe), cantato con filati e mezzevoci impalpabili e con un pathos così intenso da far venire i brividi.
Francesco Lodola
Venezia, 28 maggio 2017
Foto di Michele Crosera/Teatro La Fenice