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©Ramella&Giannese

Penultimo titolo operistico della stagione, che si concluderà con una nuova attesissima produzione del Macbeth verdiano, nonché unico titolo Mozartiano è  “Il flauto magico”, che il Teatro Regio di Torino riprende, a distanza di tre anni, nello splendido spettacolo ideato e diretto per il Teatro Massimo di Palermo, sedici anni fa, da Roberto Andò e per l’occasione ripreso da Riccardino Massa.
L’opera (in realtà un singspiel, ossia quella forma operistica sviluppatasi in area tedesca in cui si alternano parti cantate a parti recitate) forse più famosa in assoluto del bambino prodigio austriaco attrae inevitabilmente una grande quantità di pubblico assai variegato: dagli habitué, alle nonne che portano per la prima volta a teatro i nipotini, sicure di avvicinarli con un’opera dalla trama fiabesca e a tratti buffa, e tra le più musicalmente orecchiabili, non solo nelle arie della spietata Königin der Nacht.

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Sicuramente Il flauto magico non si ferma solo al semplice aspetto fiabesco, ma va ben oltre, entrando in aspetti complessi e densi di significati massonici, illuministi ed esoterici che si identificano nella ricorrenza di numeri ed elementi, nelle prove iniziatiche, e nella serie di riferimenti  al passaggio dal buio della notte intesa come inganno oscuro e superstizioso, alla luce del giorno inteso come percorso chiaro verso la sapienza assoluta.
La regia di questo spettacolo, costantemente rispettoso della partitura, così come le luci e le scene di Giovanni Carluccio ed i costumi di Nanà Cecchi, riassumono in modo semplice ed essenziale sia l’aspetto più complesso appena citato, sia l’aspetto fiabesco, gioioso ed a tratti buffo dell’opera; in particolare quest’ultimo carattere viene esaltato dall’interazione e la complicità che viene sapientemente creata tra il pubblico ed i cantanti/attori, dove quest’ultimi arrivano ad utilizzare la platea come “palcoscenico” spostandosi, recitando e cantando tra le poltrone; un altro punto fondamentale nella resa di questo spettacolo lo si può individuare in una saggia libertà d’improvvisazione ed in alcune rapide battute “fuori dal copione” senza assolutamente sfiorare l’eccesso.

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Tutta l’ironia dell’opera ruota indubbiamente attorno al personaggio dell’uccellatore Papageno, magistralmente reso dal baritono austriaco Markus Werba, vero trionfatore della serata, che comprensibilmente ha fatto del ruolo il suo cavallo di battaglia. La sua interpretazione riassume appieno i caratteri scherzosi e bonariamente codardi del personaggio, grazie alle grandiose doti attoriali ed alla padronanza scenica di Werba, che corrispondono a quelle vocali, con bel timbro squillante e grande sicurezza e morbidezza nell’emissione.
Il personaggio di Papageno viene affiancato dalla vecchia che successivamente si trasformerà in Papagena di Elisabeth Breuer , anche lei disinvolta e coinvolgente sulla scena.

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La dolce Pamina, figlia della perfida Astrifiammante Regina della Notte, è interpretata da Ekaterina Bakanova, soprano prettamente mozartiano, caratterizzato da una voce cristallina e da un emissione morbida e sempre sul fiato, crea un personaggio dal carattere insicuro e delicato, ma pur sempre deciso nella drammatica decisione del suicidio, dalla quale viene distolta grazie ai tre genietti..
Il ruolo del salvatore di Pamina, Tamino, viene affidato al tenore Antonio Poli, anche lui dall’emissione leggera e sul fiato, dotato di un timbro mai stridulo, come purtroppo non è raro sentire in ruoli mozartiani.
Sul versante scenico delinea molto bene un personaggio di per sé semplice, che non richiede particolari colpi di teatro, ma che necessità della delineazione di un carattere eroico-classico.

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©Ramella&Giannese

Antonio di Matteo sostituisce in tutte le recite fuorché la prima, l’indisposto Kristinn Sigmundsson nel ruolo del gran sacerdote Sarastro. Il giovane di Matteo è un basso assolutamente degno di tale registro per bellezza, nobiltà, e colore scuro e mai scurito del timbro, anche se (unico appunto) le note più gravi toccate nelle due celebri arie “O Isis und Osiris” e “In diesen heil’gen Hallen” perdono di luce e spessorore. La presenza scenica è quella che legittimamente si immagina per un gran sacerdote come Sarastro, ossia autorevole, e quindi quasi necessariamente di una certa statura e corporatura.
Il ruolo, breve ma insidiosissimo, della Regina della Notte è interpretato dal giovane soprano Olga Pudova, che riesce a tener testa molto bene a tutti gli acuti e sovracuti, centrati e a fuoco, medesimo discorso per le agilità, il tutto con ottima continuità di canto.
Le tre dame, in ordine, Sabina von Walther, Stefanie Irányi e Eva Vogel, danno origine ad un assieme di voci pregevole e funzionale, assolutamente ben delineato.
Completano in continuità di mantenimento del livello del cast il moro Monostatos del tenore Cameron Becker; l’oratore ed il Primo sacerdote del basso Roberto Abbondanza; il Secondo sacerdote ed il Primo Armigero del tenore Cullen Gandy; ed il Secondo armigero e una voce del basso Luciano Leoni.

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Particolare nota di merito è giusto porgerla nei confronti dei tre fanciulli interpretati da Fiammetta Piovano, Sara Jahanbaksh e Sara Rastello; soliste del Coro di voci bianche istruite dal Maestro Claudio Fenoglio.
Ottimo come sempre il Coro del Teatro Regio di Torino, anch’esso istruito dal Maestro Fenoglio.
Alla direzione dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino in un autentico stato di grazia abbiamo trovato il Maestro israeliano, formatosi alla guida di Daniel Barenboim, Asher Fisch, a cui va gran parte del merito per un lavoro curato, calibrato in ogni dettaglio e ricco delle giuste sfumature.
L’ultima recita di questa splendida produzione si conclude così tra gli applausi scroscianti, caldi e festosi, tributati a tutti gli artisti, che hanno dato vita, per la gioia dei presenti, ad una serata musicale veramente di altissimo livello.
Ora non resta che attendere la presentazione pubblica della stagione 2017/2018, che avverrà lunedì 19 giugno, nel foyer del Toro, alle ore 11:00.

Stefano Gazzera

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