
Un teatro di successo si contraddistingue per la produzione di spettacoli che siano competitivi nel panorama internazionale e che stiano di pari passo all’innovazione continua del mondo dell’arte, che non è come si vuole credere (soprattutto in Italia) impregnato di naftalina e coperto da ragnatele, ma anzi in continuo movimento e rinnovamento. E le ragnatele si tolgono solo con il coraggio. Ed è quello che ha fatto la Fondazione Arena di Verona in apertura del Festival 2017, con una nuova produzione di “Nabucco”. Questo ha rappresentato un segno di grande ripresa per una Fondazione lirica che fino a poco tempo fa versava in condizioni preoccupanti e che invece ha dimostrato la propria forza nel rialzarsi e in poco tempo presentare un programma di ottimo livello. Un livello che non può che crescere, con la speranza di vedere presto su questo palcoscenico veramente tutto il meglio del panorama operistico internazionale: già l’anno prossimo è prevista una nuova produzione di Carmen e con la programmazione dei prossimi Festival speriamo anche di vedere un rinnovamento nel repertorio proposto.
Si è molto discusso di questo nuovo Nabucco firmato da Arnaud Bernard. Qualcuno lo ha trovato confusionario, altri hanno discettato di come sia storicamente sconnesso. Entrambe le posizioni non ci sembrano pienamente condivisibili: si tratta di uno spettacolo assolutamente lineare, su cui bisognava riflettere per capire, ma neanche troppo; la non perfetta storicità è sempre stata esplicitata dal regista, d’altronde il teatro non è né una puntata di “Superquark”, né un manuale universitario di storia risorgimentale.

Lo spettacolo creato da Bernard coadiuvato dalle scene di Alessandro Camera è assolutamente travolgente, per la macchina teatrale che non soffre interruzioni e la capacità di gestire delle masse così ampie, creando con loro una azione e non un semplice spostamento come spesso avviene. Così come è scaltrito il lavoro sui diversi personaggi, che devono essere indubbiamente creati dagli interpreti e dal regista, poiché soffrono di piattezza drammaturgico-psicologica, se escludiamo Nabucco e in parte Abigaille. La vicenda viene trasportata durante i tumulti delle cinque giornate di Milano (1848) e probabilmente nei giorni precedenti la prima assoluta dell’opera verdiana al Teatro alla Scala, avvenuta nel 1842, sei anni prima. Nabucco non è altri che Francesco Giuseppe, mentre Abigaille una donna-soldato (vestita da ussaro), infiltrata tra le linee militari italiane. Zaccaria può essere ravvisato in Mazzini, o in quei profeti della patria, che incendiavano le folle inneggiando al tricolore e al valore del popolo italico. Il fulmine che colpisce Nabucodonosor è il fuoco di un attentato. La sera della prima il popolo italiano e l’esercito austriaco siedono l’uno accanto all’altro e quando il “Va’ pensiero” risuona nel teatro milanese, si scatena il diverbio tra le due parti, mentre Abigaille seduta sul suo trono abbassa gli occhi. L’atmosfera ricorda quella che accolse gli imperatori Francesco Giuseppe e Elisabetta d’Austria a Milano nel 1857, quando i nobili meneghini mandarono a teatro i propri servitori e fu intonato il celebre coro verdiano: Una scena resa famosa grazie anche all’interpretazione cinematografica firmata da Ernst Marischka con l’incantevole Romy Schneider nei panni di una Sisi ben lontana dalla realtà.

In quel momento si avvia un gioco di metateatro in cui i personaggi storici rientrano sul palco della “Scala” nei panni dei personaggi usciti dalla penna di Solera. L’apice del meccanismo viene raggiunto con la morte di Abigaille, che viene guardata dalla platea da Abigaille stessa, che sdegnosa, impaurita, si alza e si allontana, come in un processo di immagine allo specchio di memoria psicologica. La scena disegnata da Alessandro Camera è dominata dal Teatro alla Scala, ricostruito in scala 1:1, che girando su sé stesso mostra un “foyer”/studio e l’interno della Sala del Piermarini, ricostruita fedelmente. L’apertura di questo grande quadro ha acceso un applauso a scena aperta, paragonabile a quello della reggia dorata nella Turandot zeffirelliana. Grande chiusura con biglietti tricolori che cadono dal loggione al grido di “Viva l’Italia”, capace di accendere anche gli animi meno patriottici. Questo vuol dire saper creare uno spettacolo di successo in Arena: essere artefici di magia. Bellissimi anche i costumi firmati dallo stesso Bernard. La lode più grande va alle maestranze tecniche della Fondazione Arena che hanno creato questo spettacolo praticamente in tre mesi, risolvendo alcuni problemi tecnici in maniera eccezionale: come il meccanismo girevole del palcoscenico, la cui sola raggiera pesa 1600 chili ed è sopraelevata rispetto al terreno, per rispettare le norme della sovrintendenza ai beni artistici.

Quest’ultimo ruolo era interpretato da Stanislav Trofimov, una voce di bel timbro (talvolta troppo “russo” nella fonazione), che probabilmente con le prossime recite crescerà. Si trattava di un debutto, in un teatro particolare e in ruolo particolarmente esposto. Si notavano una bella cura nel fraseggio e attenzione alla linea, ma l’emozione soprattutto all’inizio non lo ha favorito.
Carmen Topciu é stata una Fenena apprezzabile, di bel timbro e di linea elegante, capace di ricavarsi un adeguato rilievo nell’aria che Verdi le dona (Oh dischiuso è il firmamento”).

George Gagnidze é un buon protagonista, con vocalità pregevole e nobiltà di emissione. Nella prima parte è risultato un po’ intimidito e probabilmente emozionato, poi si è riscattato, regalando al pubblico un commosso “Dio di Giuda” e una cabaletta coronata da una bella e timbrata puntatura.