
Arturo Chacón-Cruz è uno dei tenori più affermati a livello internazionale, protagonista del grande repertorio su tutti i più grandi palcoscenici mondiali. Nasce a Sonora, in Messico, e dopo aver vinto Operalia nel 2005, comincia una grande carriera, che lo vede affrontare più di 50 ruoli operistici, in più di venti paesi del mondo. Tra i suoi cavalli di battaglia ci sono Rodolfo ne “La Bohéme” appena affrontata a San Francisco, Alfredo ne “La Traviata” e il Duca di Mantova in “Rigoletto”. Proprio con questo personaggio ha debuttato in questi giorni all’Arena di Verona, dove è protagonista del Gala di Placido Domingo dedicato alla Zarzuela. Abbiamo avuto il piacere e l’onore di incontrarlo e di parlare con lui del suo percorso e dei traguardi futuri…
Innanzitutto, come ti sei avvicinato al canto lirico?

Mi sono avvicinato al canto lirico da molto piccolo. Avevo uno zio che cantava musica popolare messicana, che è morto molto giovane, all’età di 25 anni. Mentre firmava il suo primo film, aveva inciso il primo disco di musica vernacolare, che però non venne mai pubblicato, a causa della sua morte avvenuta in un incidente. Mio nonno aveva delle scatole piene di questi dischi, e io ho imparato tra i quattro e i cinque anni tutte le canzoni. Successivamente ho imparato da solo a suonare la chitarra e ho cominciato a cantare a tutte le feste. Sono andato a cantare con il Trio, formato da due chitarre e un basso, diventando parte di questa bellissima tradizione. Poi i mariachi mi hanno invitato a suonare la chitarra e cantare. Lo facevo con passione, con amore. Infatti parallelamente ho cominciato a studiare nella facoltà di ingegneria industriale e prima degli ultimi tre semestri ho lasciato. Questo perché la “Casa de Opera” del Messico è venuto nel mio piccolo paese, Sonora, e un amico di famiglia mi ha incitato ad andare a fare l’audizione per loro. Io non ero molto convinto, ma mia madre mi ha incoraggiato, perché la lirica mi avrebbe dato una disciplina forte. Mia mamma era anche stufa (ride) perché tornavo a casa ogni mattina alle tre, dopo aver fatto quaranta serenate, e andavo a scuola addormentato e anche a lavoro. Ho imparato un paio di arie d’opera e sono andato a fare l’audizione. Cantavo da baritono, perché l’impostazione vocale dei mariachi è più bassa. Mi hanno preso e sono andato a Città del Messico a studiare. Dopo pochi mesi mi hanno invitato nel teatro principale della città come baritono solista.

L’anno dopo c’era un gala con Placido Domingo e io dovevo aprire la serata con un’aria del “Faust”. Alla fine dell’aria ho ringraziato il pubblico e mi sono girato verso destra, dove dietro le quinte c’era il Maestro Domingo che mi applaudiva. Mi disse che alla fine dello spettacolo mi voleva parlare. Finita la recita sono andato da lui, che mi disse:” hai una bellissima voce, che mi ricorda la mia, quando cantavo da baritono”. Nella mia testa si accese una luce e gli chiesi cosa voleva dire. Lui mi disse che pensava che io fossi un tenore, dalla voce piena, capace di affrontare un repertorio consistente. “Pensaci e quando sarai pronto, vieni da me che ti faccio un’audizione, per vedere come posso aiutarti” mi disse. Ho passato un anno alla ricerca dell’insegnante giusto, poi finalmente sono andato a Boston, dove ho trovato dei coach e persone che mi hanno saputo aiutare. Ho trovato gli acuti, che erano la parte della mia voce che rappresentava il problema. Sono ritornato da Domingo, che mi ha dato una borsa di studio a suo nome. E’ stata una salvezza, perché vivere a Boston era molto caro e complicato. Ho fatto tantissime audizioni nei teatri d’opera di Houston e San Francisco e mi hanno preso come “young artist”. Successivamente sono andato ad Operalia e ho vinto tre premi. Il premio più grande, oltre ai soldi che per un giovane artista sono tanti e importanti, è che molti direttori di teatri hanno sentito la mia voce e mi hanno proposto delle scritture. Da quel momento è partita la mia carriera. Ho già cantato più di cinquanta ruoli in venti stati del mondo. Tutto questo è per me un grande regalo, perché non avrei mai pensato nemmeno di uscire dal Messico. E ora, essere qui a Verona, a cantare “Rigoletto”, una delle opere italiane più amate, è un regalo di Dio.
Placido Domingo rappresenta il tuo “padre artistico”. Qual è l’emozione di tornare ogni volta a cantare accanto a lui, come nel Gala dedicato alla Zarzuela all’Arena di Verona?
Io immaginavo il maestro Placido Domingo come una piramide egizia, un grande monumento storico, l’ottava meraviglia del mondo. Lui è una persona normalissima, e di grande semplicità. E’ proprio questo che lo rende grande. E’ al di sopra di tutti. Ha un’anima immensa, che è al tempo stesso un uomo straordinario e un artista altrettanto straordinario. E’ un uomo che sa mettere al servizio dei giovani la sua arte. La musica e la lirica che sono un patrimonio dell’umanità continueranno a vivere anche grazie a lui. E’ l’unico oggi, capace di portare la grande musica a tutti.
Qual è uno dei suoi insegnamenti che ti viene in mente mentre studi?
Ho avuto la fortuna di studiare alcuni dei miei ruoli più importanti con lui, come Alfredo ne “La Traviata” e il Duca di Mantova in “Rigoletto”, anche se quest’ultimo lui non lo ha affrontato spesso. Ho avuto l’opportunità di studiare tutti i passaggi con lui e le arie più diverse come quelle de “La Gioconda” e di Pinkerton in “Madama Butterfly”, opera che ho studiato tutta con lui. Il primo consiglio che mi ha dato lo ricordo ancora. Avevo visto il video del suo “Otello” e quando lui attaccava “Niun mi tema”, teneva i pugni serrati e era pieno di veemenza. Gli chiesi come faceva a tirare fuori tutta quella grinta. Lui mi spiegò che non teneva i pugni chiusi, ma dava soltanto l’impressione, perché non bisogna tenere tesa la muscolatura delle braccia, perché questa andrà ad influire sulla gola, che si andrà a chiudere. Bisogna dare l’effetto per il pubblico, che deve percepire della sensazioni, senza che si vada a ripercuotere tutto sulla resa vocale. Sono trucchi che ti fanno capire come risparmiarti durante l’opera e come darsi generosamente al pubblico. Abbiamo fatto insieme il “Macbeth” e la regia diceva che lui doveva venirmi incontro con l’intenzione di picchiarmi. Ricordo l’emozione e l’impressione che ho provato quando venne verso di me. Sono uscito completamente dall’opera, come se fosse quella la realtà vera. Domingo ha un’energia travolgente. Ho imparato che bisogna dare tutto in palcoscenico, essere naturali e essere assolutamente onesti. Non ci deve essere cinismo, bisogna avere la capacità di uscire dalla propria testa e immergersi in quel piccolo mondo che è l’opera, che deve diventare in quel momento tutto il tuo mondo.

Hai dedicato il tuo primo album al repertorio popolare messicano. Se ti proponessero un nuovo progetto discografico, a quale repertorio vorresti dedicarti?
Mi piacerebbe dedicare un album a Verdi. Lo avevo già inciso, ma purtroppo la casa discografica è andata in fallimento. Quando ero più giovane avevo l’idea di dedicare un cd a Puccini. Però con gli anni ho trovato, che prima di affrontare tutto Puccini, sarebbe stato utile affrontare tutto il repertorio verdiano. Verdi ti insegna a cantare, è un maestro per la voce. Anche Puccini lo è, ma puoi puntare anche su altri aspetti. Se canti bene Verdi è perfetto, se non canti bene in Verdi si vede subito. Ho già un progetto in cantiere e speriamo vada in porto. Nel nostro mondo di oggi, 2017, è molto difficile incidere un disco, perché le case discografiche sono tutte fallite e in crisi. Quest’ultime molto spesso cercano un tipo di cantanti diversi, più sostenuti dal marketing e dalla pubblicità. Questo va benissimo, ma il mio interesse è prima di tutto cantare bene.

Esiste la voce verdiana e se sì quali sono le sue caratteristiche?
La voce verdiana la intenderei come una voce dotata di tecnica, di colori e di espressione. Per cantare Verdi hai bisogno di tutto questo. In più la voce verdiana necessita di una “testa musicale”. Se hai tutto questo, sei una “voce verdiana”. Ho avuto tantissimi confronti con Ramon Vargas, un grandissimo cantante, artista e musicista, su Verdi. Lui ha lavorato tanto con il Maestro Riccardo Muti e ho avuto la possibilità di studiare molti ruoli con lui. Mi ha insegnato il rispetto per Verdi. Mi ricordo quando studiammo insieme l’aria di Riccardo da “Oberto, Conte di San Bonifacio” e in una frase dove c’erano delle note ribattute, io proposi di cambiarne una per salire all’acuto. Lui mi ha detto:” se Verdi avesse voluto l’acuto, l’avrebbe scritto”.
E il personaggio del Duca di Mantova……
Il personaggio del Duca di Mantova lo avrei voluto ritirare dal mio repertorio, perché è molto difficile, e pur essendo un ruolo importante non gli viene regalato nulla alla fine. Parlandone con Domingo, lui mi disse che Luciano Pavarotti gli diceva sempre che bisogna cantare il Duca il più possibile, fino a quando puoi. Se canti il Duca puoi cantare tutto. Questi insegnamenti mi hanno colpito e quindi ho deciso di fare lo sforzo di cantare ancora questo ruolo. Per fare il Duca devo fare quaranta minuti di tecnica ogni giorno durante il periodo di produzione. Compirò 40 anni tra un mese e il ruolo è cresciuto con me. La mia voce è sicuramente cambiata molto da quando l’ho debuttato, all’età di ventisette anni. Sono sicuro che quando metterò in repertorio “Il Trovatore” verrà meglio, grazie al lavoro che ho fatto su “Rigoletto”.

Tra quanto arriverà Manrico?
Ho cancellato quindici recite de “Il Trovatore” che avevo già programmato, perché parlando con il maestro Domingo, mi ha detto di aspettare, perché pur potendolo fare già subito, bisogna pensare all’evoluzione della carriera dopo aver cantato Manrico. Dopo averlo cantato incomincerebbero ad arrivare richieste di “Carmen” (che io canto già, ma non più di due produzioni all’anno), e di altro repertorio pesante. Di questo ne ho parlato anche con Jonas Kaufmann, il quale mi diceva che dopo aver debuttato Mario Cavaradossi in “Tosca”, quando aveva trentotto anni, gli sarebbe piaciuto continuare a cantare “La Bohème” e “Die Zauberflote”. Invece ha cominciato ad affrontare Andrea Chènier e oggi Otello. Quindi preferisco fare ancora “Rigoletto”, con la speranza che questa carriera sia lunga. Poco a poco comincerò con intelligenza ad aggiungere dei ruoli.

Quali sono le sensazioni e le emozioni di cantare all’Arena di Verona?
Quando ero piccolo vedevo le opere in televisione ed eravamo tutti incollati allo schermo. L’Arena è una meraviglia del mondo e mi fa un effetto molto forte cantarci. Mi sento onorato e benedetto da Dio per la fortuna di essere qui. Io ringrazio sempre, perché cantare è un grande regalo. Trovo che un artista per arrivare al pubblico debba essere nella musica e quindi esprimere “umanità”.
C’è un ruolo che ti piacerebbe affrontare, ma che nessuno ti ha mai proposto?
Mi viene da ridere perché è una cosa piuttosto strana, ma il ruolo che non mi è mai stato proposto è Nemorino ne “L’Elisir d’amore”. Io ho debuttato con Pinkerton in “Madama Butterfly”, poi è arrivata “La Bohème”, “La Rondine” e tanto Puccini. Successivamente è arrivato Alfredo ne “La Traviata”, il Duca in “Rigoletto”, Jacopo ne “I due Foscari” e Edgardo in “Lucia di Lammermoor”. Non so perché questo ruolo non è mai arrivato: magari lo debutterò a cinquant’anni (ride).

Prossimi impegni…
In Italia riprenderò “La Traviata” al Teatro dell’Opera di Roma, con la regia di Sofia Coppola e i costumi di Valentino. Poi sarò ad Amburgo per “La Bohème”. Farò tanti concerti in Messico, dove sto lavorando con un’agenzia di soli artisti pop. Il proprietario è venuto all’opera a sentirmi e mi ha detto che voleva portare l’opera lirica a tutti. La cosa bella è che lui non vuole fare la “lirica-pop”, ma portare l’opera pura a tutti. Probabilmente faremo una o due arie in grandi concerti di gruppi che lui rappresenta. Abbiamo tantissime e bellissime idee e spero. Mi piacerebbe portare la mia voce nella casa della gente e magari nei loro telefonini (ride). Magari farò anche della musica leggera, senza dimenticare la lirica, la sua grandezza e ricchezza, per l’anima e per il cuore.
Grazie ad Arturo per la disponibilità e In bocca al lupo!
Francesco Lodola