Violetta Valery è un personaggio mitico, un appuntamento a cui ogni cantante vuole arrivare. Probabilmente per la grande base letteraria di questo personaggio, ispirato al romanzo “La Signora delle Camelie” di Dumas figlio. Una donna, Marie Duplessis, Marguerite Gautier, Violetta Valery che è diventata icona di un’epoca e un mito femminile eterno. L’incontro tra Maria Callas e Violetta Valery avvenne al Teatro Comunale di Firenze nel 1951, sotto la direzione del maestro Tullio Serafin, grande mentore. L’opera gli era stata proposta anche l’anno precedente dall’amministratore del Palacio de Bellas Artes di Città del Messico, ottenendo un rifiuto dalla Callas, che si offrì in cambio di fare Elvira ne “I Puritani”. Nel 1951 la porterà finalmente in terra messicana, accanto a Cesare Valletti e Giuseppe Taddei. Nelle recite fiorentine affiancavano la divina, Enzo Mascherini (Giorgio Germont) e Francesco Albanese, nel ruolo di Alfredo Germont, che canterà anche nella registrazione per la Cetra, con l’orchestra sinfonica della rai di Torino, del 1953.
La Callas cantò Violetta sia a Roma che proprio alla Fenice, in alcune recite trionfali. Violetta fu anche l’unico incontro tra Maria Callas e il pubblico del Teatro Regio di Parma, presso cui non riscosse un grande successo. Quella di Violetta è una grande Callas, che riesce a dividere la sua “anima” tra una Violetta incostante e dissoluta nel primo atto e devota, malata e bisognosa di affetto e amore, durante secondo e terzo. L’interpretazione del soprano greco cambia, matura, diviene sempre più raffinata e profonda con il passare degli anni. La registrazione del 1953 testimonia quello che la stessa Callas diceva: “ho cantato come una gatta selvatica”. L’energia, la brillantezza di quel mi bemolle inebriante alla fine della cabaletta del I atto. Una Traviata generosa, abbondante, mediterranea.
Il vero spartiacque è la storica Traviata del 1955 alla Scala, recite che hanno trasformato il mondo dell’opera, e che hanno sancito la vera rivoluzione della Callas. Sotto la direzione di Carlo Maria Giulini e affiancata da Ettore Bastianini, come padre Germont e il compagno e caro amico Giuseppe di Stefano, come l’amante Alfredo, la Callas sigla delle recite che sono diventate leggendarie e paradigmatiche nell’interpretazione del personaggio e anche dell’opera stessa. Grande burattinaio è Luchino Visconti, che in un rapporto di grande osmosi artistica crea uno spettacolo che diviene ostacolo per ogni regista che si approccia alla Traviata. Il gesto di lanciare le scarpe in aria, è diventata un bagaglio di ricordi per ogni amante dell’opera, anche per chi non l’ha vista. Tuttavia anche nelle registrazioni di quell’edizione c’è un atmosfera che fa intuire il miracolo che in quegli istanti avveniva sul palco scaligero. Indimenticabile si dice la scena finale, in cui la Violetta moribonda si rivestiva, infilandosi il cappello, dettaglio che la Callas eliminò durante le repliche, poiché diceva a “Luca” che una donna non avrebbe mai indossato per primo il cappello.
Le Traviate che seguirono diventarono sempre più rifinite: straordinario era il febbrile nervosismo del I atto, che appariva così epidermicamente isterico, quel “Dite alla giovine” così sussurrato, intimo, fino all’Addio del passato, in cui la voce diventa il suono della morte, scarno, debole, commosso e arreso alla fine della vita. La Traviata di Lisbona del 1958, accanto ad Alfredo Kraus è una delle più straordinarie testimonianze del teatro callassiano. Paradigmatica anche la Traviata a Dallas, con la regia di Franco Zeffirelli, che le costruirà addosso uno spettacolo straordinario, che sarebbe diventato poi una versione cinematografica, senza la Callas, la quale non amava l’opera al cinema. Nel 1970 si parlò di un grande ritorno della Maria come Violetta all’Opera di Parigi, sempre con la regia di Visconti. La Callas si preparò, annunciò questo appuntamento, ma poi capì di non poter donare più niente a questo personaggio. Due anni prima la EMI voleva registrare la sua interpretazione del personaggio all’Accademia di Santa Cecilia, con la direzione di Giulini e un partner giovane e in grande ascesa, Luciano Pavarotti. Anche questa volta studia, insieme alla sua maestra di sempre, Elvira de Hidalgo, ma alla fine rinuncia. E’ una donna diversa, che la vita ha reso infelice, delusa, cosciente di non essere più all’apice. Il suo canto si è ormai spento, per divenire mito.
Cornelia Marafante e Francesco Lodola