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©Roberto Ricci

Il Festival Verdi di Parma rappresenta ormai un appuntamento fisso per ogni melomane che si rispetti. Come un buon vino va affinandosi e arricchendosi anno dopo anno, oltrepassando la dimensione “di nicchia” e affermandosi come un’idea vincente, capace di attirare partecipazione in modo trasversale e allo stesso tempo di scavare sempre più e meglio nella ricchissima e sempre geniale produzione artistica del Cigno di Busseto.

In questo contesto la scelta di proporre il poco noto rifacimento parigino de I Lombardi alla Prima Crociata merita già di per sé un plauso. Doppio perché il risultato finale è ampiamente positivo.

Jérusalem vide la luce nel 1847, anno in cui Verdi ebbe i suoi primi successi internazionali. Un Verdi giovane ma già affermatosi stabilmente in Italia che scelse di disimpegnarsi nel servire il pubblico dell’Opéra di Parigi con una riedizione, secondo i canoni indiscutibili del “Grand Opéra” francese, del successo italiano di quattro anni prima. Si trattò dunque di una scelta che dovette fare i conti con la necessità di inserire, tra le altre, la classica parentesi (di quasi mezz’ora) di balletto.

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©Roberto Ricci

I toni generali di Jérusalem si adattarono alla perfezione ai gusti d’oltralpe, soffermandosi maggiormente su un lirismo e su un sentimentalismo intimi e raffinati, senza pur perdere pagine di grande fervore e stentoreità. La trama fu semplificata, l’ambientazione trasferita in Francia, il quadro storico, pur senza perdere di rilievo diventò, secondo un’inversione di prospettiva, sfondo delle vicende dei due innamorati, su cui maggiormente si incentrò la narrazione assai curata dell’autore.
Quanto fin qui detto fu oculatamente rispettato e riportato anche sotto l’aspetto più propriamente musicale e orchestrale, per cui il Maestro Italiano non si limitò a riversare senza modifiche l’intera partitura de I Lombardi ma anzi la adattò e rielaborò in più parti con cambiamenti funzionali al nuovo lavoro.
Insomma, Jérusalem non può essere in alcun modo derubricata come una forzatura, un riciclo adattato in forme francesi di un’opera visceralmente italiana, condizionato e penalizzato da necessità di “adeguamento culturale”. Non lo è e si presenta invece come un qualcosa di diverso e nuovo, perfettamente calzante ed aderente ai tratti distintivi e più tipici del genere, peraltro affrontati con assoluta libertà. Jérusalem ha tutte le carte in regola per rivendicare un’autonomia e una dignità proprie che la annoverano a tutti gli effetti come un eccellente esempio di Grand Opéra.

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©Roberto Ricci

Alla luce di quanto fin qui detto è chiaro che le difficoltà nella riuscita di questa intrigante scommessa intrapresa dal Festival possono presentarsi ed essere rilevanti. E’ al contempo fuori da ogni discussione però che la sfida sia stata vinta.

A partire dalla direzione del Maestro Daniele Callegari, guida sicura di un’ottima Orchestra Filarmonica “Arturo Toscanini”, capace di intavolare lo spettacolo con i giusti tempi, equilibri e colori, in un’interpretazione accurata, appassionata e perfettamente aderente alle sensibilità richieste. Eccellente la preparazione da parte di Martino Faggiani del sempre appagante Coro del Teatro Regio, capace di regalare intense emozioni e splendide sonorità in più momenti dell’opera.
Sotto il profilo vocale, senza voler nulla togliere agli altri interpreti, protagonista indiscusso (prevedibilmente ma con pieni meriti) è chi gioca in casa, il basso Michele Pertusi, nel ruolo di Roger. Il Parmigiano, forte di una imponente e pluriennale carriera, è artista sopraffino che gode ancora di invidiabile solidità, estensione e bellezza vocale, della piena padronanza dei suoi mezzi oltre che di superlativa maturità stilistica e interpretativa.

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Al suo fianco certamente non sfigura il resto del cast. Ad Annick Massis (Hélène) si potrebbe obiettare una leggerezza vocale che nel registro grave la penalizza in parte e volendo anche quindi una non esatta scelta di repertorio. Occorre però ricordare che siamo di fronte ad un Verdi francese, in cui la straordinaria sicurezza tecnica, le suggestive sfumature di colori, il gusto e la finezza di questa cantante la rendono pressoché impeccabile, ancorché rappresentante di livello di una scuola purtroppo ormai rara. Ciò non solo in virtù delle già lodate purezze ed eleganze vocali ma anche grazie ad una finezza assai pregevole nella resa scenica del personaggio.
Ramòn Vargas è un Gaston complessivamente convincente. Sostenere il ruolo che fu pensato e cucito su misura per Gilbert Duprez (svettante tenore che “inventò” il Do di petto) non è una passeggiata. L’ormai maturo interprete messicano evita saggiamente quando possibile di inerpicarsi troppo in acuto. Al netto di questo la tenuta è quasi perfetta, il timbro ancora bello, caldo e luminoso, il fraseggio elegante e l’emissione dolce e priva di ruvidità. Prova ampiamente superata.
Del tutto soddisfacente il resto della compagine, con punte di spicco Pablo Gàlvez (Comte de Toulouse) e Paolo Antognetti (Raymond). A posto gli altri: Valentina Boi (Isaure), Deyan Vatchkov (Adhélmar de Monteil), Massimiliano Catellani (l’émir de Ramla), Matteo Roma (un officier de l’émir), Francesco Salvadori (un hérauld/un soldat).

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Lo spettacolo curato dal grande regista Hugo De Ana è di grande effetto. Viene voglia di descriverlo con una violenta pioggia di aggettivi, un po’ come quella che nei cambi scena a vista riempie di sabbia il palcoscenico: sontuoso, variopinto, cinematografico, travolgente, ricco ma al tempo stesso coerente, curato, bello, raffinato. Lo spazio in realtà abbastanza vuoto si riempie di vita, di atmosfere, rimandi e suggestioni in una successione di belle luci (Valerio Alfieri) che valorizzano una scenografia curatissima; profondità, cave di pietra con alte pareti rocciose, un susseguirsi di proiezioni (di Sergio Metalli, quasi sempre di buon gusto, raramente un po’ kitsch) sul fondo e sul sipario trasparente che incontrandosi, dividendosi e sommandosi contribuiscono ad arricchire e dare dinamismo e pienezza allo svolgimento. Tutto è caricato, senza pesi eccessivi, del giusto senso: dall’opprimente e ridondante fanatismo religioso del Medioevo francese in cui abbondano croci e bolle papali ma anche gli splendidi colori delle vetrate nelle grandi cattedrali, agli aridi e polverosi scenari desertici e al profumo antico di cultura orientale che aleggia a Gerusalemme. I costumi non derogano dal resto, valorizzando appieno le personalità dei diversi artisti anche se forse non sempre pensati del tutto in funzione delle fisionomie di taluni interpreti.

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©Roberto Ricci

Se la resa visiva finale riflette insomma in ogni dettaglio una cura mai approssimativa e sostenuta da una solida preparazione culturale e storica e che permette di cogliere sovente interessanti e mai banali rimandi pittorici e artistici, anche la regia in quanto tale scorre senza particolari problemi, con una intelligente gestione delle masse e un positivo contributo dato dal corpo di ballo (non sempre fisicamente impeccabile) preparato da Leda Lojodice.

Teatro colmo di pubblico, con una rilevante componente francese, tedesca e giapponese, segno di un’ormai consolidata affermazione di un Festival sempre più punto di riferimento. Entusiastici applausi per tutta la compagnia con ovazioni e trionfo del beniamino di casa Michele Pertusi.

Grigorij Filippo Calcagno

Parma, 8 ottobre 2017

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