Intervistare Giacomo Prestia significa fare un viaggio attraverso una carriera enorme segnata da grandi e prestigiosi incontri, in un mondo della lirica praticamente scomparso, fatto da un vero e proprio artigianato dell’arte, del costruire la voce con amore e passione. Un mondo in cui il melodramma faceva parte del DNA familiare e culturale dell’individuo. Giacomo Prestia è uno degli ultimi grandi bassi di quella gloriosa scuola italiana, che oggi sembra non sempre così vitale. Oltre a cantare però Giacomo si è ultimamente avventurato nel mondo della letteratura, e a breve uscirà il suo romanzo d’esordio “Operazione 1009”, un thriller con un antefatto orribile e tragico: protagonisti un marchese dal passato misterioso e un’inchiesta che si intreccia con un piano d’azione sofisticato quanto ardito, che prova a ristabilire la giustizia in un continuo susseguirsi di colpi di scena. Romanzo d’azione, thriller, ma anche indagine sui lati oscuri dell’animo umano, sullo sfondo di un paesaggio toscano insieme ameno e inquietante. Il romanzo trascinerà il lettore nel suo andamento serrato senza mai mollarlo, attraverso una trama poderosa scandita da episodi di calligrafica vividezza e personaggi dai lineamenti indimenticabili…Ma innanzitutto partiamo con la nostra intervista dal Giacomo Prestia cantante lirico…per poi volgerci verso lo scrittore…
Come è nato il tuo amore per il canto?
L’amore per il canto è nato in casa: mio padre era un musicista ed è stato direttore del coro a Firenze, Torino e San Francisco. Nella sua carriera ha anche diretto l’orchestra, per esempio una Fanciulla del West a Torre del Lago, con Silvano Carroli e Giovanna Casolla, con i quali poi ho lavorato in una Aida e si ricordavano di mio padre. Mia mamma era una cantante, non professionista, ma suonava il violino e cantava. In casa dunque si sentiva tantissima musica lirica. Non ho disdegnato la musica dei miei anni “ruggenti”, perché quando avevo vent’anni ero un rockettaro. Però piano piano ho cominciato a coltivare la passione del canto e stimolato dalla mamma, dopo varie vicissitudini, ho trovato un Maestro di canto a Firenze, che ha impostato bene la mia voce. Dopo cinque anni di studio ho fatto il concorso al Teatro Comunale di Firenze come corista e lo vinsi. Da quel momento ho continuato a studiare con il mio insegnante, per diventare un solista. Infine nel 1992 ho vinto il Concorso Pavarotti, che ha dato il via alla mia carriera, perché da quel momento Adua Pavarotti mi prese sotto la sua ala protettrice e mi ha incoraggiato a lasciare il coro e a buttarmi in questa avventura da solista. Sono praticamente trent’anni che vivo grazie alla mia voce.
Quest’anno ricorre il decimo anniversario dalla morte di Luciano Pavarotti. Hai un ricordo speciale di questo grande artista?
Io con Pavarotti ho lavorato due volte: il famoso Don Carlo alla Scala nel ’92 e poi nel 1995 in “Un ballo in maschera” con la direzione di Daniel Oren e la regia di Alberto Fassini. Di Pavarotti ho un aneddoto strano ma divertente da raccontare. Nel 1992 io avevo vinto il suo concorso in Italia e avevo la possibilità di partecipare alla finale di Philadelphia, dove arrivavano tutti i vincitori di Europa, Asia e America. Io arrivai lì che non stavo troppo bene, avevo problemi di stomaco, avevo mangiato male e il volo non era andato bene, cantai e lui rimase un po’ perplesso, perché non trovava la stessa voce che aveva sentito a Modena. Durante i dieci giorni del concorso mi sentì tutti i giorni. Il giorno della finale, durante l’ora in cui la giuria si riunì per decretare i vincitori, io andai al bagno e ad un certo punto sento un’altra persona che entra e mi dice: “Allora! Ho voluto sentirti tutte queste volte perché qualcosa non mi tornava. Oggi finalmente ho sentito la voce che avevi a Modena, dunque hai vinto il concorso!”. Conservo questo bellissimo e simpatico ricordo di lui che mi comunica la vittoria, mentre eravamo in bagno! Da lì nacque la mia carriera, trovai il mio primo agente, Benito Vassura, che era il direttore della parte artistica della RCA dedicata all’opera.

Hai lavorato con tutti i direttori più importanti: Abbado, Prêtre, Muti, Mehta, solo per citarne alcuni…c’è un maestro che ti è rimasto di più nel cuore?
Senza piaggeria devo dire che tutti quanti sono stati determinanti per il mio percorso. Quello da cui ho imparato di più è forse Riccardo Muti. Ebbi l’occasione di fare con lui la “Messa di Requiem” di Verdi e siccome ero l’unico del quartetto che non l’aveva mai fatta con lui, feci una work session da solo con lui che suonava al pianoforte e io cantavo. Ho imparato di più in quelle due ore con lui, che in cinque anni di carriera. Mi ha aperto un mondo. Con Zubin Mehta ho avuto bellissime esperienze, così come con il maestro Daniel Oren. Lo stimo tantissimo anche come persona, perché è una persona bella. Mi è rimasto negli occhi il suo sguardo quando seppe della morte di Salvatore Licitra, a cui ero molto legato. Stavamo facendo Aida all’Arena di Verona in quel periodo, e io partii tra una recita e l’altra per andare da Salvatore in ospedale. Con Oren ci gioco e ogni tanto gli faccio la sua imitazione per scherzo. Un altro direttore con cui ho avuto due esperienze incredibili è Myung-whun Chung, la prima molti anni fa, quando registrammo “Otello” con Placido Domingo nel 1993 a Parigi. Nel 2014 l’ho rincontrato alla Fenice di Venezia, dove abbiamo fatto “Simon Boccanegra” con Simone Piazzola. Quell’uomo è straordinario e ha tirato fuori da quell’orchestra il meglio, un vero dio. Ho una bellissima fotografia con un bell’abbraccio tra noi ed è uno dei miei ricordi più belli.
Sei sicuramente uno degli ultimi grandi bassi della scuola italiana e hai affrontato tutto il repertorio verdiano, da I Lombardi alla prima crociata, Alzira, fino a Don Carlo e Forza del destino…la voce verdiana è un falso mito o esiste?
Esiste sicuramente. Esiste una voce che si adatta di più a quella che è la scrittura verdiana, ci deve essere. Purtroppo oggi voci verdiane ce ne sono veramente poche, soprattutto se parliamo di bassi. Il basso di Verdi deve avere morbidezza, il “graffio”, il mordente che serve per avere l’accento verdiano e la vibrazione necessaria per passare l’orchestra imponente di Verdi. Non è un fatto di volume, ma di proiezione della voce. Oggi ci sono pochi giovani colleghi che possiedono queste caratteristiche, mancano i veri bassi.
Come ti spieghi questa carenza di voci di basso/basso profondo?
Non me lo so spiegare. Probabilmente oggi non ci sono i maestri che mettono sulla strada giusta una voce. Io dal mio maestro ho imparato che una voce va capita dal passaggio, dove automaticamente il cantante per salire sugli acuti deve passare la voce nel registro di testa. Il basso ha il passaggio intorno al Do-Do#, il baritono intorno al Mib-Mi e il tenore nella zona del Fa-Fa#/Sol. Da quello capisci il tipo di vocalità di ognuno. Oggi molto spesso un insegnante di canto appena sente che una voce ha gli acuti lo classifica come tenore, o se un cantante ha le note gravi belle e profonde, allora è automaticamente un basso. Non è detto: l’estensione è tutta un’altra faccenda. Io mi diverto ad insegnare canto e penso di essere, modestamente, anche abbastanza bravo e ho capito che bisogna anche avere un po’ di fantasia nell’insegnare. La tecnica è una sola, ma va adeguata alla fisicità dell’allievo. Ci sono allievi che hanno un viso largo, e con la bocca stretta , o piccola o chi ha una mascella pronunciata; e così bisogna saper adattare la tecnica del canto alle caratteristiche individuali. Una volta nel capire le voci avevano un ruolo fondamentale anche i direttori artistici, che erano musicisti o persone competenti.
Parliamo invece di questa avventura letteraria: a novembre uscirà infatti per Viola Editrice il tuo romanzo d’esordio, “Operazione 1009”….Com’è nato questo progetto?
Questa avventura letteraria è nata mentre facevo “Aida” a Torino, ed ero in un periodo non facile per la mia vita, e spinto dal baritono Vittorio Vitelli, che anche lui sta scrivendo un libro, ho iniziato a buttare giù delle idee che avevo già in mente. Da lì è nato questo thriller ambientato tra la Toscana, Roma e l’Iraq. Mi sono ritrovato a scrivere questa storia, e durante la stesura tutti quelli che lo leggevano (gli amici, le mie sorelle e tutte le persone che mi sono vicine) apprezzavano. Parla di un aeromodellista (come me) che monta una telecamera su un modello e filma una cosa che non avrebbe dovuto. E da quel momento parte un grande intreccio e uno sviluppo….
Anche il titolo è molto enigmatico…
In realtà io avrei voluto chiamarlo soltanto “1009”, ma la casa editrice mi ha consigliato di mettere davanti un sostantivo, per far sì che fosse più facilmente catalogabile per le librerie. Ora è in stampa e il mio amico Simone Piazzola mi sta aiutando a promuoverlo sui social, con la creazione di una pagina ufficiale su facebook e twitter.
Cosa c’è dell’opera in questo libro?
C’è pochissimo, ma c’è. Il protagonista, l’aeromodellista, è un ex-cantante che fa il regista, e con la telecamera sull’aliante riprende delle immagini, che potrebbe utilizzare per costruire la scenografia del “Gianni Schicchi” che sta mettendo in scena. C’è una piccola descrizione della famosa “Turandot” fiorentina di Zhāng Yìmóu, e poco altro. Nell’articolazione del thriller l’opera non ha un suo ruolo. Comunque tutti quelli a cui l’ho fatto leggere sono rimasti ben impressionati ed è piaciuto il mio modo di scrivere, perché io utilizzo in parte il vernacolo, che ho ben limato, per fare in modo che sia un romanzo che abbia una diffusione più ampia possibile e successo a livello nazionale. Tutto dipende dalla pubblicità e dalla fortuna. Ho già scritto il secondo capitolo, che sto correggendo con la mia sorella maggiore, che ne è entusiasta, e ha detto che è migliore del primo. Il secondo sarà più di azione, perché si gioca a carte scoperte.
Tornando al canto, c’è un ruolo non ancora affrontato che ti piacerebbe interpretare nel futuro?
Mi piacerebbe tantissimo, e me l’hanno proposto già due volte, il ruolo del titolo in “Boris Goudonov”, ma ne ho molta paura. Prima di tutto per la lingua, anche se il russo come l’italiano è molto musicale. Mi piacerebbe avvicinarmi a questo titolo magari prima come Pimen e poi arrivare a Boris. Però in questo momento in Italia è molto difficile che un teatro metta in scena questo titolo. E all’estero molto spesso ricorrono a cantanti che l’hanno già fatto, perché magari sono di madrelingua. Di Verdi non saprei cosa fare di più….
Quali sono i consigli che daresti ad un giovane che si avvicina all’opera come studente di canto, o come semplice spettatore?
Innanzitutto auguro a coloro che si avvicinano come studenti di trovare l’insegnante giusto, perché ce ne sono. Poi direi loro che la lirica non è più quella di una volta e quindi consiglierei loro di affidarsi ad un agente che sia veramente una brava persona e competente, perché oggi non ci sono molti agenti che ti prendono sotto la propria ala e ti guidano nel tuo percorso. Una volta l’agente era molto consapevole nel prendere delle scelte sulla carriera di un cantante, guidandolo nell’affrontare i ruoli giusti al momento giusto. Ora quando un cantante ha una voce viene speso in tutto il repertorio possibile. E’ come se ad un giovane di 25 anni, dessero da fare Filippo II del “Don Carlo”. Cosa potrebbe capire un ragazzo di questo ruolo? Io ho una venerazione per Chung e mi ricordo quando dopo una serie di recite meravigliose di Boccanegra alla Fenice, chiese a Piazzola quanti figli avesse. Simone rispose che ne aveva uno solo. Bene, Chung gli disse:” Quando lei ne avrà altri, vedrà che il suo Boccanegra sarà ancora più bello!”. La stessa cosa vale per Filippo II, un sovrano, un padre. Per ritornare al Doge genovese il duetto per tra Simone e Maria è uno dei momenti più emozionanti, il ritrovo tra un padre ed una figlia, e si sente la sofferenza di Verdi per aver perso due figli. Si sente la sua disperazione di uomo, e un cantante la deve far percepire e percepirla lui stesso. A 25 anni cosa vuoi capire di rapporti tra genitori e figli?….io a quell’età ero lontano chilometri. Adesso a 57 anni, Filippo II lo interpreto cercando di evidenziare le sfaccettature che il ruolo richiede, perché ho un’esperienza di vita e di padre. Consiglio ai giovani di trovare il maestro giusto, e di accorgersi subito se è l’insegnante che fa al caso loro, e non aspettare troppo a capire se il maestro che si ha davanti è una persona competente, anche perché oggi spesso, molti si improvvisano.
Prossimi impegni…
Molto volentieri ho accettato, nonostante a Parma io abbia fatto ruoli più rilevanti, di cantare Sparafucile in “Rigoletto” per i cinquant’anni di carriera di Leo Nucci. Non canto questo dal 1994/1995, ma lo faccio ben volentieri, perché cantare al Teatro Regio è sempre una grande gioia. Poi sarò Alvise Badoero in “La Gioconda” nei teatri di Reggio Emilia, Piacenza e Modena. Poi farò Macbeth a Liegi e poi tanti altri progetti…
Grazie a Giacomo Prestia per la grande disponibilità e In bocca al lupo!