
Continuano gli appuntamenti con “Fratelli d’itali@! “, la nuova rubrica che settimana dopo settimana ci fa conoscere i giovani e affermati musicisti italiani che oggi fanno musica al di fuori dei nostri confini. Oggi tocca a Emmanuele Baldini, violinista triestino che dopo lunghi anni di formazione e carriera ha intrapreso una nuova avventura, quella di primo violino dell’orchestra di San Paolo del Brasile.
Ciao Emmanuele e grazie di aver accettato il mio invito a partecipare a questa intervista.
M: Come ti sei avvicinato alla musica? Cosa ti ha fatto capire che il violino era il “tuo” strumento?
EMM: vivendo con ambedue i genitori pianisti, ero costantemente circondato dalla musica. Specialmente grazie alle molte ore di studio di mio padre. Improvvisavo frequentemente, seduto all’enorme strumento nero che troneggiava nel nostro salotto. Ma il violino è stata una vera e improvvisa rivelazione, per la quale devo ringraziare Uto Ughi. Fu infatti il Concerto di Tchaikovsky suonato da lui e trasmesso dalla RAI, che mi colpì in un lontano 1978. A soli sei anni ero stato colpito da una specie di Cupido musicale e l’oggetto della mia passione divenne il violino, il cui primo è minuscolo esemplare ricevetti come regalo il Natale dello stesso anno.

M: Nella tua formazione hai incontrato grandissimi insegnanti come Ricci e Romano. Cosa ricordi della tua fase “formativa”? Chi è stato l’insegnante che secondo il tuo parere ti ha trasmesso di più nel campo della musica da camera e del tuo strumento?
EMM: Non posso dimenticare il severissimo prof. Bruno Polli, rigido e inflessibile però certamente dotato di una buona conoscenza strumentale. Poi, certamente, Corrado Romano, il filosofo. Amante di Nietzsche, eccellente pianista, introverso e molto sensibile. Lui mi ha inculcato gli ideali del musicista onesto, rigoroso, raffinato. Oltre a ciò, l’umanità che si respirava durante le sue lezioni era un tesoro che porto con me fino ad oggi. Ricci, la leggenda Ricci è stato quello che mi ha facilitato i rapporti con lo strumento e con il palco. Con tutta l’esperienza di una vita sui palchi di tutto il mondo, aveva incredibili consigli per risolvere problemi strumentali e psicologici apparentemente enormi. Abbiamo fatto un lavoro pragmatico di costruzione del violinista sicuro di sé e padrone del proprio strumento. Ma , il più rivelatore di tutti musicalmente parlando, è stato Franco Rossi, violoncellista indimenticabile dell’indimenticabile Quartetto italiano.

M: Cosa significa per te essere ” Violino solista” ? Quali difficoltà, secondo te, devono affrontare i giovani violinisti per intraprendere la carriera da solista ?
Sono solista fra le altre varie discipline che mi piace abbracciare. Credo profondamente in un ideale di musicista non specializzato e che possa facilmente spaziare in vari ambiti di questa meravigliosa e multi-sfaccettata arte. Perciò, la mia risposta sarà certamente frustrante: non mi sono mai considerato un solista. Mi ricordo un indimenticabile concerto di Schumann con Aldo Ciccolini al “Verdi” di Trieste, e mai mi dimenticherò il suo cercare sempre la musica da camera: sempre pronto al dialogo, sempre avendo bisogno del dialogo! Anzi, rispondendo alla seconda parte della domanda, dirò che forse è proprio questa una delle principali difficoltà per un giovane: capire che i più grandi solisti debbono essere prima di tutto grandi cameristi. E la cultura della musica da camera è una cultura molto inattuale, perché richiede tolleranza, flessibilità, capacità di adattarsi e una fede incrollabile nel DIALOGO. Ecco… appunto… tutto quello che ci manca anche nella società.

M: Nella tua carriera hai intrapreso l’importante ruolo di primo violino di spalla in importanti orchestre. Ti piaceva quel ruolo? Sei riuscito sempre a instaurare un buon feeling con le orchestre in cui hai suonato ?
Ho sempre considerato un’orchestra come una grande famiglia, o come un piccolo spaccato della società in cui viviamo. Ci sono sempre grandi amici, grandi nemici, e una gran parte di persone a cui non importa più di tanto quello che succede intorno. Ma come spalla, il mio dovere è trattare tutti nello stesso modo, sapere ascoltare, avere soluzioni rapide e efficaci per ognuno dei problemi che possono capitare. Naturalmente quando ero a Trieste non avevo l’esperienza che ho oggi, e in generale non ho buoni ricordi del mio periodo triestino, in parte anche per l’enorme frustrazione di non avere il potere di cambiare uno status quo che io consideravo terribile, musicalmente parlando. Ma ho ricordi splendidi del Comunale di Bologna, dell’Orchestra della Galizia e dei miei periodi in Scala. Ma, dopo 13 anni in Brasile, devo dire che nessuna città, orchestra, paese, mi ha dato di più di São Paulo, la mia OSESP e il Brasile.

M: Attualmente sei “spalla” all’ Orquestra Sinfonica do Estado de São Paulo (OSESP). Come ti trovi in Brasile? Ti manca l’Italia? Come potresti descrivere l’ambiente musicale brasiliano?
Mi manca l’Italia per quello che potrebbe essere e non per quello che è. Mi manca per le straordinarie bellezze che riposano in tutto il suo territorio, ma non mi manca per una vita professionale che non potrebbe, oggigiorno, farmi felice. Molte cose dovrebbero cambiare per far tornare l’Italia quella referenza nell’Arte che dovrebbe essere la sua vocazione. In Brasile ho trovato una terra fertile per la creazione di progetti. Molto interesse da parte delle istituzioni e un incredibile sete di cultura e di musica da parte del pubblico. Un sogno, per chi ha tante idee e vede che, al contrario dell’abituale “no se pol”, le risposte sono sempre “vamos!”.
M: Dopo la tua carriera da strumentista è nata una “nuova faccia”, ovvero quella da direttore d’orchestra. Quali difficoltà hai trovato nel passare dall’altra parte della barricata ? Uno dei tuoi insegnanti è stato Frank Shipway. Qual è stato l’insegnamento più grande che ti ha dato?
La spalla è un leader, e la direzione è un naturale sviluppo del lavoro di spalla. Perciò non riesco a considerare il dirigere come “passare dall’altra parte della barricata”. Per me è uno sviluppo naturale e credo che il mio storico (e il mio presente) di spalla mi permetta di dirigere come un semplice “coordinatore” di voci musicali. Anche il dirigere lo vedo come musica da camera. In realtà mi sto accorgendo che più accumulo esperienza e più la musica tutta si riassume nel concetto e nell’ideale della musica da camera. Shipway è stato un angelo caduto dal cielo. In Brasile con lui abbiamo fatto I concerti più straordinari della storia dell’orchestra, oltre a una registrazione formidabile della Sinfonia Alpina di Strauss. Indimenticabile anche il mio Concerto di Schumann, sotto la sua direzione, e ancor di più le prove, nell’hotel in cui era ospitato, lunghe prove accompagnate da Gin Tonic e molte risate. Un genio che avrebbe potuto essere famoso in tutto il mondo, ma che, per sua sfortuna e per mia sorte, è stato un indimenticato protagonista della vita musicale della nostra orchestra negli ultimi anni.

M : Cosa significa per te dirigere?
Cercare di trasmettere ai musicisti il mio immenso amore per la musica, perché dimentichino la routine del quotidiano di ogni orchestra e possano dare il meglio di sé.
Dirigere significa coordinare un gruppo di musicisti, sia tecnicamente ma soprattutto psicologicamente.
M: Chi è Emmanuele al di fuori dell’ambiente musicale? Come ti descriveresti?
Un eterno alunno che ama fare un passo alla volta, tentando migliorare a ogni nuovo giorno che nasce.
Grazie mille per questa chiacchierata con noi, è stato un vero piacere per noi di “Ieri, Oggi, Domani, Opera! “!
Matteo Firmi