
Un Trovatore “effervescente” arde e avvampa il pubblico del Municipale di Reggio Emilia.
Grande successo nella città del Tricolore per la celebre opera del Maestro di Busseto, il cui tratto distintivo è stato senza dubbio l’originale e personalissima direzione del giovane ma già affermato Andrea Battistoni.
Impresa riuscita, sia chiaro fin da subito, questa solida produzione di Trovatore che dopo aver incassato il plauso entusiasta di Reggio Emilia farà tappa al Teatro Comunale “Luciano Pavarotti” di Modena. Opera certamente tra le più celebri e amate ma proprio per questo più difficili da rappresentare senza scadere in banalità o cose già viste e riviste.

Bene ha fatto dunque il regista Stefano Vizioli a scavare nelle viscere di questo capolavoro smontando alcuni stereotipi incrostati dal tempo nell’immaginario collettivo. Un esempio? Manrico, spesso realizzato come sorta di eroe invincibile dall’acuto insolente e svettante quando invece andrebbe letto (come qui è stato fatto) come un perdente nato, poeta, cantore, amante che morirà senza conoscere la sua verità. Le essenziali ma funzionali scene di Alessandro Ciammarughi (autore anche dei bei costumi, assai curati e fedeli in ogni dettaglio) costituite da pochi elementi mobili e da ampi e profondi spazi vuoti concentravano ogni attenzione sui caratteri e le contraddizioni dei personaggi, così come le luci di Franco Marri che, nel costante buio che dominava gran parte dell’opera evocavano quell’aura di superstizione e magia che pervadono l’intera vicenda.

Il Trovatore è soprattutto evocazione, racconto, memoria più che azione scenica. In questo senso tutta la drammaturgia è nella musica e chi dirige deve esserne consapevole.
Lo è stato Andrea Battistoni? Probabilmente sì. Con una conduzione passionale e intensa che ha esaltato e oseremmo dire esasperato ogni dinamica, tinta, sfumatura, dai colori al tempo. Un impeto vulcanico e una foga folgorante, quello del giovane Maestro, che ha sicuramente entusiasmato il pubblico dimostrando comunque aderenza stilistica, un lavoro certosino sulla partitura e sulle singole sezioni dell’organico, una lettura mai superficiale, sommaria o strombazzata ma approfondita e dettagliata. D’altronde come scriveva Bruno Barilli, è qui che “il ritmo prodigioso e veemente, scagliato con la fionda, durevole come il bagliore di una scarica cosmica, arrossa tutto il cielo vibrante dell’arte.” Qualche squilibro ed eccesso hanno condizionato complessivamente l’interpretazione rendendola non sempre lineare e stabile ma la prova può dirsi ampiamente superata. Da segnalare purtroppo il consueto fastidioso taglio della ripetizione di “Di quella pira”.

A questo autentico fiume in piena hanno risposto con trasporto e ottima preparazione l’Orchestra dell’Opera Italiana e il Coro Claudio Merulo preparato autorevolmente dal M° Martino Faggiani e protagonista di momenti davvero suggestivi.
Il cast vocale ha visto tra le proprie fila la netta affermazione delle interpreti femminili come indiscusse protagoniste. Vittoria Yeo, Leonora, ha incantato la sala con una voce pura, cristallina, incisiva e ben sostenuta da una solida tecnica che le ha garantito la piena riuscita di ogni sfumatura musicale e interpretativa che il ruolo le richiedeva, nelle agilità e negli acuti quanto nelle tinte più liriche e drammatiche. Solida e convincente anche Silvia Beltrami nel ruolo di Azucena, forte di un registro basso di grande volume e corpo (ma omogenea in ogni tessitura) e di un’ottima padronanza dei propri strumenti e del palcoscenico. Vittorio Vitelli si è disimpegnato correttamente pur non spiccando per fraseggio, volume e bellezza del timbro, a tratti un po’ sfocato.

Ha soddisfatto le aspettative del pubblico (meno le nostre) invece Gianluca Terranova, un Manrico dotato sì di un bel timbro, corposo e squillante ma che ci è parso però mettersi in difficoltà da solo nelle pagine che non richiedevano veemenza e slancio. La tendenza a salire di registro con qualche emissione nasale di troppo, lo ha messo a dura prova ad esempio nel finale di “Ah sì, ben mio” e in generale la sua prova ci è sembrata orientata quasi sempre ad un canto stentoreo anche quando sarebbe stato necessario un maggior dosaggio di colori e dinamiche. A parziale difesa del tenore va detto però che questa tendenza la si è riscontrata in maniera abbastanza diffusa e generalizzata anche a causa delle frequenti “esplosioni” orchestrali che in alcuni casi coprivano le voci. Vittime, a tratti, di ciò sono stati soprattutto i pur positivi comprimari (Simona di Capua, Ines e Simone di Giulio, Ruiz) e il Ferrando di Francesco Milanese.
Uno spettacolo nel complesso più che soddisfacente dunque, forte di un dinamismo giovane e spigliato ma al tempo stesso della solidità di interpreti di livello.
Reggio Emilia, 29 ottobre 2017
Grigorij Filippo Calcagno