
Un’Aida del tutto asettica, quella proposta al pubblico del Comunale di Bologna in questi giorni di novembre, tra un cast vocale complessivamente passabile e un allestimento assai discutibile.
Aida, si sa, nell’immaginario collettivo e popolare è l’opera degli sfarzi areniani, tra elefanti, sfingi dorate e chi più ne ha più ne metta. Tanti sono stati i tentativi, più o meno riusciti di proporre regie alternative a questo modello, tra questi si colloca senza dubbio anche quello andato in scena nel 2014 allo Sferisterio di Macerata e ripreso per l’occasione a Bologna, in un luogo ben diverso quale un teatro è.
Tanto si potrebbe dire se si aprisse la discussione sempre attuale sul tema delle regie ma chi vi scrive è testardamente convinto della validità di un principio: giusto esplorare nuove forme, idee, ipotesi ove possibile farlo ma guai a stravolgere il senso, l’essenza, l’identità di un’opera.

Convincersi che si possa fare a meno a una seppur minima atmosfera d’Egitto in un titolo come Aida derubricando sommariamente l’ambientazione originaria a “immagine stereotipata” è rischioso e sostanzialmente errato, poiché il risultato funziona se musica e regia parlano nella stessa lingua, se in maniera complementare esaltano la trama quanto l’ambientazione in cui essa si svolge. Decontestualizzare con l’obiettivo di dare maggiore rilievo alla psicologia dei personaggi rischia paradossalmente di ottenere uno snaturamento e una privazione dell’anima che va in direzione opposta ma è purtroppo ciò che sembra essere avvenuto in questo caso.

Lo spettacolo, firmato da Francesco Micheli tradisce più volte una vocazione da spazi ampi e aperti come furono quelli dell’arena marchigiana; l’idea che domina è quella, azzardata, di un parallelismo tra le scoperte tecnologiche del tempo e quelle odierne. Ecco quindi che puntuale si presenta una schiera di tablet messi in mano ai coristi non si capisce con quale utilità e connessione con ciò che nel mentre essi stanno cantando e rappresentando. Una scelta, quella dei computer, che vede anche un non ben definito personaggio (narratore?) comparire sporadicamente in scena con il suo pc portatile all’inizio e alla fine della rappresentazione. Pare essere un grande computer aperto anche la scena, composta unicamente di due piani bianchi e lisci (uno al suolo inclinato e una parete sul fondo) che esauriscono di fatto il ruolo di Edoardo Sanchi, scenografo. In questa desolazione priva di un benché minimo riferimento temporale e geografico a dare corpo alla regia sono le costanti e ricche proiezioni che pur di riempire tutto ciò che manca alternano momenti didascalici di sconcertante banalità e ingenuità (i nomi dei personaggi scritti ad ogni prima apparizione, ad esempio), altri in cui i bei disegni stilizzati di Francesca Ballarini tentano di rievocare scene animate di guerra ed altre situazioni descritte, un po’ di simbolismo egizio e qualche elemento scenico “virtuale” a separare e inscatolare i personaggi entro riquadri forse a volerne esaltare caratteri e personalità.

I costumi di Silvia Aymonino pur non essendo brutti risultano ambigui e non sempre rispettosi dell’identità dei personaggi (una schiava in abito quasi da sera non risulta credibile), le luci di Fabio Barettin, riprese da Daniele Naldi e le coreografie di Monica Casadei (Compagnia di Ballo Artemis Danza) risultano curate e si adattano invece bene allo spettacolo.
Insomma, se da un lato è comprensibile che si volesse mettere in scena un’Aida fortemente innovativa (in senso positivo) che avesse come tratto distintivo l’essere concettuale, simbolica, asciutta, sgombra e lontana da ogni orpello ridondante e resa grandiosa unicamente dalla sua nuda essenzialità e dall’uso studiato di luci e colori, dall’altro lato (e come detto inizialmente era prevedibile) è fuor di dubbio che la riuscita finale sia piuttosto quella di un’Aida del tutto asettica, vuota, piatta, insipida, eccessivamente criptica da un lato, ingenuamente descrittiva dall’altro. Si sarebbe fatto volentieri a meno dell’infelice presenza dei computer, del tutto superflui e insensati.

Se si pensa poi che basti l’uso esclusivo di proiezioni fumettistiche a mettere in scena un’Opera si sbaglia ed è forse meglio che lo si faccia in forma di concerto, prestando maggiore cura alla scelta dei cantanti ed evitando di creare situazioni che li mettano in difficoltà e paiono irragionevoli (come quella di posizionare il coro sempre dove non deve essere: in platea a discapito dell’omogeneità di suono, o sul proscenio con i cantanti dietro a sgomitare per farsi sentire).
Venendo alla parte musicale, generalmente positiva ma non particolarmente emozionante, senza infamia e senza lode la prova di Monica Zanettin nel ruolo della protagonista. Il soprano veneto possiede certamente una buona padronanza della parte, buon dosaggio di voce, correttezza ed equilibrio nelle dinamiche ma la sua prova non spicca. Incostante nella gestione dei mezzi vocali e non del tutto convincente risulta invece il Radames di Antonello Palombi: la voce c’è ed ha volume ma se il registro centrale è spesso, pieno e potente (di tinte baritonali), salendo e scendendo ai registri acuti e grave si ha un improvvisa perdita di smalto e corpo che condiziona oltre che la linea vocale il fraseggio, nel complesso poco fluido e disomogeneo, anche a causa di una scarsa attenzione ai legati e ad una fastidiosa tendenza ad abbozzare attacchi violenti e privi di gusto (un solo esempio: “dirti” praticamente urlato in “dirti per te ho pugnato” in “Se quel guerrier io fossi”).

Conclude il trio di testa una ottima Nino Surguladze, che con la sua bella voce dipinge una giovane Amneris perfettamente nella parte, versatile nel canto spiegato (che potenza in acuto!) quanto in quello più “intimo”, penalizzata forse solo a tratti nella resa da assurde scelte registiche davvero poco intelligenti. Solido e convincente è parso anche Dario Solari, Amonasro, un baritono di quelli che non deludono mai: buona tecnica e tutti i requisiti per una prova efficace. Un po’ affaticato e opaco il Ramfis di Enrico Iori, decisamente meglio il Re di Luca Dall’Amico, corretti i restanti interpreti (Beth Hagermann, sacerdotessa e Cristiano Olivieri, messaggero).
Infine la direzione di Frédéric Chaslin, complessivamente in grado di far quadrare i conti, stacca i tempi giusti ma non presta grande cura all’approfondimento della partitura, riuscendo in maniera migliore nelle grandi scene d’assieme che nelle restanti in cui, tra dinamiche solo abbozzate e una tendenza a coprire i cantanti non ha fatto faville. Bene il Coro del Teatro Comunale di Bologna, preparato da Andrea Faidutti e l’Orchestra, se si eccettua qualche imprecisione tra i fiati solisti.
Al termine grande successo per tutti da parte del pubblico.
Grigorij Filippo Calcagno
Bologna, 19 novembre 2017