Lucrezia Drei è una delle più promettenti stelle operistiche italiane della sua generazione. Una voce solare, brillante e dotata di un’espressività e comunicatività sincera, spontanea e affascinante. Smessi i panni di Gilda, interpretata per OperaLombardia, in questi giorni è al Teatro Filarmonico di Verona, dove debutterà il ruolo di Valencienne ne “La Vedova Allegra” (recite il 19, 23, 29, dicembre). Pochi giorni fa abbiamo avuto il piacere di poterla incontrare e intervistare durante una delle poche pause dalle numerose prove..
Come ti sei avvicinata al canto, dal momento in cui tu nasci musicista?
Ho cominciato a sei anni con il pianoforte, che piaceva molto a mia madre, e a undici sono passata al flauto. Quando ero piccola mio padre, che era un loggionista di Bologna, mi portava a teatro e mi preparava raccontandomi le trame delle opere: comprava i biglietti sei mesi prima come si faceva una volta, e in me cresceva l’attesa trepidante di quelle serate. La mia prima opera è stata “Le Nozze di Figaro”, che è stato anche il titolo del mio debutto. Mi rimase molto impressa, soprattutto il personaggio di Cherubino. Avevo sei anni e la brillantezza di questo personaggio di ragazzo con la voce di donna…mi ha rapito. Poi comprai il CD e lo ascoltavo ininterrottamente: un’edizione stupenda diretta da Carlo Maria Giulini; la sapevo a memoria. Dopodiché un giorno per caso venimmo a sapere dell’esistenza del coro di voci bianche della Scala. All’audizione ovviamente cantai “Voi che sapete” e il Maestro Casoni rimase colpito. La settimana dopo il suo assistente, Alfonso Caiani (ora direttore del coro del Théâtre du Capitole di Toulouse), telefonò a casa chiedendo ai miei genitori di mandarmi in teatro, perché stavano allestendo Il Flauto magico ed erano alla ricerca di bambini per i tre genietti. Non riuscii a fare quella produzione, ma fui scelta subito dopo nel Wozzeck. Fu difficilissimo, perché era in tedesco e servivano pochi bambini: ci chiesero chi conosceva il tedesco, ed io subito mi offrii. Mi diedero la parte e mi misi così d’impegno ad impararla che la ricordo ancora! Avevo finto di sapere il tedesco e quindi dovevo sostenere questa “messinscena” (ride)….
Il canto dunque è stata una vocazione o una scelta naturale?
Direi che è stato tutto naturale. Non so se è stata una vocazione, perché avrebbe implicato il domandarmi che cosa volevo fare nella vita, e io ho sempre voluto fare questo. La vocazione è una scelta consapevole, la mia più che altro è una necessità. Nessuno dei miei genitori è musicista, e quindi nessuno di loro sapeva in cosa sarebbe consistito il mio mestiere, ma mi hanno sempre sostenuta. L’unica ferma raccomandazione di mio padre è stata quella di studiare uno strumento perché, diceva, “i cantanti ignoranti non vanno più di moda”. Lo diceva da loggionista e aveva ragione: oggi che il livello è sempre più alto fa la differenza.
Quanto ti è servito e ti serve l’essere una strumentista?
Lo studio di uno strumento al conservatorio è estremamente disciplinante, perché ti insegna a dedicare ad ogni passaggio tutto il tempo necessario perché venga come lo vuoi tu. Naturalmente quando sapevo già che avrei voluto cantare, dedicare comunque cinque, sei ore di studio al giorno al flauto era faticoso, ma è stato educativo per la mia formazione di musicista e mi ha permesso di raggiungere una grande autodisciplina. Solo dopo il diploma di flauto, a diciannove anni mi sono iscritta a canto. E il canto mi sembrò subito un mondo totalmente diverso, perché mentre nello studio di uno strumento predomina la consapevolezza che quasi ogni problema si risolve con lo studio tecnico, per cantare tutti hanno una voce, molti hanno il “dono” della voce, e quindi la natura nel cantare sembra la dote più importante; non è così. Io per esempio ero all’opposto: avevo la musicalità, una formazione artistica acquisita in dieci anni sul palcoscenico del più importante teatro e tra i maggiori musicisti del mondo. Eppure dovevo studiare e molto, dovevo costruire la tecnica. Ho applicato la mia disciplina strumentale al canto, affrontando ogni passaggio tecnicamente per fare in modo che si consolidasse nella mia organizzazione vocale. Così ho costruito la coloratura, il registro acuto e quello grave, e in questo modo continuo ad affrontare lo studio dei nuovi ruoli. Poi c’è un discorso di approfondimento interpretativo, umano, artistico, che credo faccia parte di una sensibilità innata, arricchita dallo studio: io ho studiato Lingue e letterature straniere, dedicandomi alla letteratura tedesca e francese proprio per approfondire le lingue dell’opera, ma c’è anche chi non ha una formazione umanistica ma si interessa al personaggio che interpreta cercando tutto il materiale e l’ispirazione per poterlo interpretare. Essere un’artista è un insieme di tantissime cose e non si finisce mai di ricercare ed approfondire…
Come descriveresti la tua voce?
Ultimamente mi è capitato in Cina di fare dei concerti e di tenere delle Masterclass dimostrative. Lavorando con gli allievi ti accorgi di quanto sia diversa la percezione della propria voce rispetto all’impressione che ne hanno gli altri. Una delle regole dei cantanti, forse quella fondamentale, è non ascoltarsi mentre si canta: bisogna sempre cantare per gli altri, senza ascoltarsi e giudicarsi. Non saprei come descrivere la mia voce: la mia speranza è che la mia voce sia comunicativa. Brutta, bella, piccola, grande, sono tutti parametri non oggettivi che non bastano a descrivere la voce. Sicuramente non è una voce drammatica, e penso neanche brutta, a vedere il repertorio che affronto e la risposta positiva del pubblico; ma chiaramente, come a tutti i cantanti, non mi piace quasi mai riascoltare la mia voce registrata.. Desidero trasmettere emozione solo con la voce. Ci sono degli artisti che con la loro voce ti fanno capire ciò che sta succedendo in scena, ti fanno percepire i cambiamenti di espressione e di sentimento: un milione di colori diversi come la vita! E’ una cosa che si conquista con l’esperienza e la ricerca. Un altro aspetto a cui tengo moltissimo è la chiarezza della dizione, perché oggi come non mai è necessario che la parola sia chiara ed intellegibile per un pubblico non sempre formato. I soprattitoli sono utili, ma è necessario che il canto sia più nitido possibile, il che oltretutto aiuta anche la proiezione del suono…
Hai fatto un’importante esperienza all’Accademia rossiniana di Pesaro e Rossini è un autore ben presente nel tuo repertorio: come ti trovi in questi ruoli e come ti rapporti da musicista con la questione delle “variazioni” e della costruzione musicale rossiniana?
E’ stata un’esperienza meravigliosa, e uno dei punti di svolta per il mio percorso. Lavorare con il Maestro Zedda è stato un miracolo. Ci sono state anche masterclass di Juan Diego Florez ed Ernesto Palacio. Tutte le indicazioni di Zedda sono state “oro” per me: ho avuto in quell’occasione la gioia (è una gioia rara) di lavorare con un musicista di un altro secolo, che apparteneva ad un’altra scuola, non interessato al mercato delle voci. Ho vissuto in una “bolla” di musica. A lui interessava che cosa un interprete riusciva a tirare fuori dalla musica. La prima cosa che diceva era che lo spartito è “morto”, è carta, e non sempre attendibile, quindi è l’interprete che deve tirare fuori da quelle pagine la musica, e il suo livello di “estrazione” era mille volte quello che io pensavo di aver fatto. Io arrivai lì vincendo un’audizione e quindi avendo già avuto delle conferme, e nonostante lui mi abbia apprezzato tanto da affidarmi il ruolo di Corinna ne “Il Viaggio a Reims”, lavorando con un musicista di questo livello mi sono accorta di quanto io dovessi ancora conquistare. E questa è una grande felicità perché apre sempre nuove possibilità, e porta a pensare a quanto ancora di nuovo si possa trovare in un pezzo musicale.
Per quanto riguarda le variazioni, solitamente le scrivo io. E’ una cosa a cui tengo molto: le variazioni devono essere personali, non si copiano perché sono costruite sulla propria voce. Si lavorano certamente anche con il direttore, ma essenzialmente dipendono dall’interprete. Ci sono alcune variazioni molto belle che mi sono state consigliate dal Maestro Zedda, o che ho sentito da interpreti celebri, ma non sono mai integralmente copiate. Si possono anche variare da produzione a produzione: per esempio le variazioni che ho fatto a Pesaro erano diverse da quelle che ho fatto a Verona lo scorso maggio. Il bello di Rossini è che è sempre nuovo e diverso, vivo! E penso mi possa portare tanta fortuna.
Questo dipende anche dal tipo di messinscena….
La produzione di Verona era ispirata ai cartoni animati. Certe cose erano forse un po’ estreme, ma è piaciuto moltissimo. Era uno spettacolo colorato e vivace, e Viaggio a Reims necessita di gag e trovate, perché è essenzialmente una cantata scenica e quindi non c’è una vera e propria azione, non succede nulla, un allestimento ricco e divertente è importantissimo!
Come ti trovi però a lavorare in produzioni di diverso stampo?
La Vedova Allegra che sto facendo al Teatro Filarmonico è in un allestimento ultra-classico. E’ la prima volta che indosso abiti di questo stile, ormai gli allestimenti sono quasi tutti “moderni”. Sulla scena mi piace trovare con il regista un linguaggio moderno ed attuale, nonostante il contesto che magari prevede piume e spade. Sedendomi però tra il pubblico mi piace vedere la piuma e la spada (ride)…Lo so che è strano, ma neanche così tanto. Un amante dell’opera è obiettivamente amante di un qualcosa di antico. Quindi capisco il punto di vista dei loggionisti, del pubblico e della critica sull’amore per la tradizione. Una persona che va all’opera vuole andare a vedere un certo tipo di spettacolo, se no andrebbe a vedere la prosa contemporanea, o al cinema a vedere Star Wars. Anche perché se ci mettiamo a competere con il cinema perderemmo la partita, poiché non abbiamo né in mezzi né lo spazio adatto a ricreare certi effetti speciali, e neanche gli attori, poiché fondamentalmente siamo cantanti…la strada è un’altra secondo me.
Probabilmente dipende da “come si fa” la tradizione…
Non sono l’allestimento o il costume che invecchiano o rendono attuale un’opera, ma è la qualità del gesto, la cura per il senso dei movimenti e l’attenzione verso le relazioni tra i personaggi. Anche musicalmente bisogna fare attenzione a non appesantire l’opera della cosiddetta “tradizione”. In questo periodo sto facendo Rigoletto per OperaLombardia, i costumi rimandano a un Cinquecento rivisitato e la scenografia è astratta, simbolica. Questo io credo sia un buon compromesso, perché rimanda all’atmosfera d’epoca senza essere oleografica, e con una cura attenta del gesto scenico, il cui merito è della regista Elena Barbalich. Oggi il pubblico vuole dal cantante una recitazione meno stereotipata e più vera.
Parliamo dunque di Gilda…questo personaggio spesso frainteso…
Sono molto contenta perché mi hanno detto che è stata una Gilda senza bamboleggiamenti. Gilda è un personaggio che mi fa “soffrire”, molto difficile. Ha questo primo atto in cui è vittima: viene raggirata dal padre, raggirata dall’innamorato, rapita dai cortigiani, dunque sembra un’ingenua. E sfido chiunque a non esserlo: una ragazza che ha vissuto rinchiusa fino all’adolescenza è ovviamente sprovveduta. Dopodiché questa donna prende improvvisamente in mano la sua vita e decide di morire per un uomo che l’ha ingannata (di cui nel dramma di Hugo è amante per tre mesi). Fa una scelta estremamente drammatica, simile al sacrificio di Violetta, che però è un altro tipo di donna. C’è quindi un passaggio che non è “a vista” del pubblico, una trasformazione drammatica enorme. Tanti non colgono appieno lo spirito di Gilda e non leggono una sua iniziativa nell’uccidersi, lei però dice una frase importante per capirne l’essenza: “Ah, s’egli al mio amore divenne rubello, io vo’ per la sua gettar la mia vita”. Per lei vivere non ha più senso, senza l’unica ragione per cui ne valesse la pena. Per questo decide di salvare la vita del Duca. E’ un cambiamento che lei matura evidentemente già durante il quartetto, anzi già dall’inizio dell’atto lei è cambiata. Tra il II e il III è importante ricordarsi che passa del tempo (nell’opera un mese: “Della vendetta alfin giunge l’istante! Da trenta dì l’aspetto” dice Rigoletto). E’ un personaggio lontano dalle donne d’oggi, che a livello interpretativo ha bisogno di una grande riflessione…
L’importante è non fare un primo atto in cui Gilda sembri una “scema”, perché dopo rendere il cambiamento diventa veramente difficile. Anche vocalmente è scritta in modo piuttosto “scomodo”: l’aria (“Caro nome”) arriva dopo due duetti, il finale arriva dopo la scena della tempesta. Trovo che il primo atto sia il più difficile: prima il duetto con il padre in cui continua a ripetere le stesse frasi, a fare domande, e sembra una bambina. Poi il duetto con il Duca, in cui non fa che scappare dalle braccia dell’innamorato. E’ proprio il Duca che ci dice che vede quella ragazza al tempio “da tre mesi ogni festa”; tutte le domeniche lei va in chiesa per vedere quest’uomo, e quando lui arriva in casa sua bisogna essere efficaci nel rendere questo incontro: io ripenso a quando eravamo adolescenti e a scuola aspettavamo di vedere l’innamorato all’intervallo. Lei non è stupida, è incosciente. Una donna intelligente che potrebbe essere più formata e consapevole, ma non lo è perché è stata chiusa in casa.
Il salto a Valencienne è abbastanza ampio….
Ci voleva dopo Gilda un personaggio come Valencienne, allegra e divertentissima….
E’ anche un genere completamente diverso…quali sono le difficoltà dell’operetta?
Il parlato per esempio non mi preoccupa, perché l’ho già affrontato nel Flauto magico a Trieste e nel Ratto dal Serraglio a Savonlinna. Per chi non lo ha mai fatto, la prima volta può essere “antipatico”, perché ci si deve abituare a passare da un parlato sonoro al cantato senza stancarsi. Con l’esercizio e con astuzia si trovano delle strategie: personalmente cerco di parlare in una posizione simile a quella in cui canto, utilizzando le stesse risonanze, mandando la voce “avanti” con il fiato, senza gridare, che sarebbe controproducente. Poi c’è la questione dell’articolazione delle parole, che per me è un bel problema, perché parlo velocissimo (ride). Anche la dimensione attoriale del parlato è diversa: ci sono cose che vengono naturali mentre canti grazie alla musica che suggerisce l’emozione e il ritmo, mentre nel parlato vanno costruite. Per questo ho sentito l’esigenza di approfondire la recitazione studiando all’Arsenale di Milano con un grandissimo maestro, Ida Kuniaki, che segue il metodo di Jacques Lecoq, basato sul corpo e sull’immedesimazione fisica in ogni stato d’animo. Mi ha aiutata tantissimo perché il peso del corpo, l’ampiezza e la durata dei gesti rendono le emozioni, e non sono cose fatte a caso. Si può avere un portamento innato, però non basta, soprattutto in opere che hanno dialoghi così lunghi. Valencienne deve avere una brillantezza per cui è necessario trovare i tempi della comicità, e questo è tutt’altro che facile. Fortunatamente in questa produzione veronese c’è Marisa Laurito, che supplisce a tutte le nostre pecche, perché è straordinaria.
Questa Valencienne balla anche…
Ballare non è il mio mestiere (ride)…..però ho fatto dieci anni di ginnastica artistica, che mi aiutano sempre moltissimo. A Roma per esempio ho fatto Oscar in Un ballo in maschera e facevo varie acrobazie. Anche in questa Valencienne ne vedrete…Ma ballare necessita di maggiore morbidezza: il can-can è una coreografia molto simile alla ginnastica, mentre il valzer è più problematico (ride). Cinquant’anni fa tutte le donne e gli uomini sapevano ballarlo, oggi no, dunque ci stiamo esercitando!
Ci sono altri titoli o ruoli d’operetta che ti piacerebbe interpretare….magari Hanna Glavari?
Il primo titolo che mi viene in mente è Die Fledermaus. Per Hanna direi che è presto. Questa è un’opera che vocalmente non ha una scrittura difficile, ma un po’ pesante poiché la tessitura è piuttosto bassa. Sono dei ruoli “cammeo” che rappresentano delle parentesi nel repertorio abituale, e in un momento della carriera già avanzato. In Hanna puoi fare dei meravigliosi filati, mettere in mostra le tue capacità di attrice e di primadonna, ma non è un personaggio che ha un grande sviluppo drammaturgico. Il Pipistrello è più un’opera vera e propria, rappresenta quasi un’eccezione in questo genere, per la complessità della trama e la ricchezza dei temi musicali. La Vedova Allegra però mi ha fatto ritrovare quell’atmosfera della commedia leggera, un genere che in Italia ha avuto enorme successo per molti anni, per poi perdersi quasi del tutto anche nel mondo della televisione. Noi fondamentalmente facciamo intrattenimento, che può essere sia “drammatico” che “comico” e il pubblico a volte vuole rilassarsi, seguire una storia facile, con dei temi musicali orecchiabili e vedere degli artisti che si divertono insieme a loro in palcoscenico. Certo, il teatro deve anche far riflettere: uscire dal teatro e pensare a Rigoletto, scritto un secolo fa, ma con una fotografia della condizione delle donne che ci tocca ancora molto. Però è anche bello andare a teatro e non pensare a nulla, godersi una serata divertente con della bella musica…e in questo l’operetta è un genere meraviglioso!
Un ruolo che è invece nei sogni?
Così su due piedi, il primo ruolo che mi viene in mente per il futuro è Violetta de La Traviata, ma so bene che per la mia vocalità e per il mio spirito devo ancora attendere. Anche I Puritani, La Sonnambula e Lucia di Lammermoor sono nei miei desideri. Presto farò Adina ne L’Elisir d’amore; In questo momento sono molto felice di cantare Bellini e Donizetti, e soprattutto Mozart, che è in assoluto il compositore che preferisco.
Elvira de “I Puritani” e Lucia hanno in comune una grande scena di pazzia…come ti prepari per questi due cimenti?
Elvira, Lucia, Amina….direi che vado pazza per le donne pazze (ride). Ho letto i romanzi come “La sposa di Lammermoor” di Walter Scott, la trama dell’opera è ricalcata su quella di Scott ma sono poche le cose in comune; aiuta però a capirne l’atmosfera. Non mi stupisce che le donne impazzissero, vista la condizione in cui vivevano: sono tutte donne oppresse da un sistema governato da uomini. L’unico modo che hanno di prendere in mano la propria vita è la pazzia. Lucia uccide il suo sposo, Gilda si immola..Amina non compie nessun atto violento ma, celata dal sonnambulismo, c’è un’anima che sta meditando di uccidersi per amore. Il tema che lega queste figure ogni donna lo affronta in modo del tutto personale. Questo tipo di pazzia, penso alle frasi di Lucia, o ai cambiamenti improvvisi di Elvira, deve trovare forza e verità nella propria sensibilità. Come interprete, ci sono momenti in cui ti estranei dalla realtà e coincidi profondamente col personaggio, altri in cui ti ispiri a te stesso e al tuo vissuto. La pazzia è uno di questi. Sono sensazioni intime: Lucia vede l’altare, vede Edgardo, e lo devi vedere veramente anche tu. Se tu non lo vedi non lo vedrà neanche il pubblico.
Prossimi impegni…
Elisir d’amore in marzo al New National Theatre di Tokyo, Il Flauto magico a Macerata con Graham Vick, Carmina Burana a Mosca, poi di nuovo Adina in Francia e tanti altri progetti…
Grazie a Lucrezia Drei per la disponibilità e In bocca al lupo!
Francesco Lodola