
Che La Scala abbia scelto di aprire la stagione con questo Andrea Chénier rappresenta una doppia ragione di merito: primo, per la scelta del titolo. Opera splendida, troppo raramente compare sui palcoscenici mondiali. Partitura rappresentativa al massimo di quello stile ancora ibrido fra un romanticismo crepuscolare e il tentativo musicale verista, melodrammatica nel senso più pregnante del termine ma non scontata. In questo senso si conferma l’attenzione della Scala di Pereira nei confronti di parti di repertorio spesso trascurate. E questo elemento è del tutto nuovo rispetto alla gestione precedente.
In secondo luogo, per il cast raccolto, di primo ordine, come la serata inaugurale richiede.
Innanzitutto le voci, fra le quali svetta quella grande, cremosa e piena di Anna Netrebko. Il mezzo della cantante russa è forte e sempre sicuro anche nei passaggi più impervi. Ottima distribuzione dei registri, e sorprendente proiezione della voce. A tutto ciò, la Netrebko unisce una dote scenica che la rende sempre padrona del palco.

Yusif Evyazov ne è degno compare, e porta in scena uno Chénier dal timbro particolare, molto ben sicuro nel fraseggio e dal registro acuto abbastanza squillante. La voce si adatta molto bene al ruolo, eroico ma morbido, poetico.
Luca Salsi è un Gerard di tutto rispetto, dotato di timbro scuro e profondo, all’occorrenza dolente e all’occorrenza feroce. L’impostazione prettamente verista del suo Carlo lo fa risaltare massimamente nel confronto con Maddalena al quadro terzo.
Bersi era Annalisa Stroppa, artista che fa sempre piacere riascoltare per la perizia esecutiva e per un suono naturalmente favorito, intenso e ricco di colore. La sua interpretazione risalta in modo inequivocabile anche in un ruolo tutto sommato non di primo piano, e pone assai in rilievo la figura della mulatta.

Mariana Pentcheva nella parte della contessa di Coigny mostra una voce ancora piuttosto forte e dal bel timbro, anche se risente di qualche leggera incrinatura.
Una nota di lode va certamente oltre che all’Incredibile di Carlo Bosi, anche a Judith Kutasi, che ha vestito i panni della Vecchia Madelon, altro ruolo piccolo ma tratteggiato con commovente sapienza dall’autore. La sua voce brunita e la sua carica patetica hanno saputo creare una resa riuscita. Ricordiamo anche Gabriele Sagona (Roucher), Costantino Finucci (Fléville), Gianluca Breda (Tinville), Francesco Verna (Mathleu), Manuel Pierattelli (L’Abate/poeta), Romano Dal Zovo (Schmldt), Riccardo Fassi (Il Maestro di Casa/Dumas).
Riccardo Chailly sceglie di aderire alle volontà dell’autore e di eseguire i numeri musicali in continuità. Da sempre attento a questa gamma di repertorio, conferma la sensibilità verso questo genere di composizioni, dove la sua bacchetta coglie sfumature e colori sempre nuovi. Piena, potente e drammatica, l’orchestra è una presenza importante, e non un mero accompagnamento di ciò che avviene in scena. Il suono è bello, terso e la conduzione trascinante e sempre in linea col percorso drammatico.

La regia di Mario Martone ha pure convinto molto. Fedele alle didascalie e all’ambientazione originale, Martone immagina tuttavia un palcoscenico di grande modernità tecnica (ottima intuizione la scenografia rotante di Margherita Palli, in perfetta collaborazione con la scelta musicale del direttore) e di gusto essenziale, senza mai sforare nel kitsch. Suggestiva al massimo la scena del tribunale, dove il popolo-coro è esso stesso lo sfondo agitato e vibrante, come pure ricca di grande eleganza il salone su cui si alza il sipario. Ricordiamo pure i bei costumi di Ursula Patzak, le luci di Pasquale Mari e la coreografia di Daniela Schiavone. Il lavoro sugli interpreti sembra essere riuscito, tutti sono sulla scena con agio e naturalezza, ancora una volta nel rispetto del libretto ma senza maniere da vecchio melodramma.
Stefano de Ceglia
Milano, 2 gennaio 2018