
Oggi ci sono pochi direttori d’orchestra che amano davvero il canto, e quando accade di incontrarne uno sembra quasi un miracolo. Sergio Alapont è uno di questi: ama i cantanti che sono sul palcoscenico, li segue, li aiuta e mette la musica al loro servizio. Tutto questo si percepisce anche stando seduti in platea, come ci è successo durante le recite de “La Vedova Allegra” al Teatro Filarmonico di Verona. Proprio in quelle settimane abbiamo avuto il grande piacere di poter incontrare il Maestro Alapont e di realizzare con lui questa intervista…
Com’è nato l’amore per la musica?
L’amore per la musica è nato in casa, avendo in famiglia due musicisti, mio padre e mio fratello: il primo professore di conservatorio e il secondo cornista. Dunque ho avuto la fortuna di crescere con la musica e poter avere vicino a me qualsiasi soddisfazione musicale, come poteva essere una partitura, un libro o un’incisione. Questo sembra banale, ma permette di arrivare a conoscere tanta musica e spesso capita che le cose imparate in quell’età così giovane, rimane molto. Mi capita spesso per esempio che quando devo dirigere un’opera lirica o un’opera sinfonica, mi viene in mente quella registrazione che ho sentito per la prima volta. Bisogna certamente sviluppare una propria idea e personalità rispetto alla musica, ma è normale che ci sono delle cose che ritornano alla mente, penso per esempio a “La Traviata” di Kleiber, un’incisione che c’è in tutte le case di appassionati. Mi sono approcciato al linguaggio musicale molto presto, perché mi interessava e mio padre entusiasta, mi ha aiutato molto in questo senso, indirizzandomi sulla strada della musica.
Il direttore d’orchestra è una vocazione?
E’ una vocazione perché sia mio padre che mio fratello sono stati direttori d’orchestra, seppur non con una carriera pienamente professionistica. Mio padre è andato in pensione qualche anno fa, mentre mio fratello ora insegna musica al liceo e fa progetti di musica. Da piccoli giocavamo con le bacchette che avevamo a disposizione e facevamo delle gare di composizione, con mio padre in giuria. Era divertente. Certe volte ho pensato che queste cose ci facevano avere un carattere troppo competitivo, però fortunatamente non esistito mai nessun disagio in questo senso. La vocazione di dirigere un’orchestra è arrivata dunque molto presto: avevo dodici anni la prima volta. Ho continuato a dirigere tutti gli anni fino ai diciotto, in occasione della festa di Santa Cecilia, un solo brano: questo impegnava tutto il mio anno di studio. Ricordo per esempio il preludio della “Carmen”. A diciotto anni ho iniziato a ricevere i primi contratti, sporadici, non con una grande continuità, e contemporaneamente, nonostante avessi un posto stabile come professore d’orchestra (flautista) all’Orchestra Sinfonica di Oviedo, ho deciso a ventitré anni, di andare in America, a fare l’assistente di Marco Armiliato. All’inizio non ho avuto molte opportunità di mostrare le mie capacità, ma poi piano piano, ho avuto la possibilità di avere sempre più progetti interessanti, anche a livello internazionale. Sono stato fortunato di aver potuto gestire tutto “in crescendo”, cercando sempre di superarmi e di migliorare.
Raccontaci un po’ dell’esperienza a fianco di Marco Armiliato…
Questa è stata l’esperienza più appassionante che io abbia mai fatto: a ventitré anni, a New York, al Metropolitan, condividendo ogni giorno per sette ore di prove con i più grandi che passavano da quel teatro. Mi ricordo Maria Guleghina, Placido Domingo, Juan Pons, la compianta Daniela Dessì (Madama Butterfly) con Fabio Armiliato, Cristina Gallardo-Domas, Ainhoa Arteta. Ricordo le prove James Levine, oggi al centro di molte polemiche, soprattutto Falstaff, che ha una struttura molto sinfonica. Ricordo l’ultima volta di Luciano Pavarotti al MET, seguita dalla polemica per la cancellazione. Ogni giorno dalle undici, si fanno le prove, fino alle diciannove, prove musicali, di scena, luci. Una vita molto intensa. Marco è una persona davvero speciale, con il quale ho mantenuto un legame di vera amicizia. E’ un amico e un mentore. E’ stata una esperienza che ho vissuto in grande, un sogno che diventava realtà: andavo a prendere il caffè con tutti questi grandi, come se io fossi uno di loro. Non lo ero affatto, ero lì per imparare.
Perché hai scelto di dedicare grande parte del tuo percorso al teatro musicale?
La scelta di fare opera è derivata dal fatto che i due professori principali che ho avuto (uno per la tecnica e uno per il repertorio) e che sono stati miei mentori, erano due direttori operistici: Marco Armiliato e Donato Renzetti. Studiando con loro quello che si impara e quello di cui si parla, è opera. Per fortuna ho potuto fare anche abbastanza esperienza nel repertorio sinfonico. Ho per fortuna anche due grandi direttori che mi hanno consigliato e che tutt’ora mi seguono, e sono Semyon Bychkov e Antonio Pappano. Quest’ultimo è una persona stupenda, e quando ci vediamo a Roma mi dedica del tempo e mi dà delle indicazioni preziose per migliorarmi, nonostante lui abbia un’attività molto frenetica, anche più di Bychkov. Bychkov è più severo, più paternale, ma ha un grande cuore e una grande generosità. Sono recentemente andato a sentirlo dirigere a Ravenna il Concerto per pianoforte e orchestra n. 1 di Čajkovskij e la “Symphonie Fantastique” di Berlioz, e lui era aggiornato perfettamente su tutto quello che avevo fatto e che farò. La prima volta che feci “Le nozze di Figaro” a Catania, andai a Roma dal Maestro Pappano, che le aveva appena fatte al Covent Garden, mi diede dei consigli preziosissimi, per esempio di ridurre la parte degli archi, per ottenere una trasparenza maggiore. L’ho messo in pratica e il risultato era eccellente. Ho sempre intuito di voler studiare con veri direttori d’orchestra. La mia generazione raramente trovava un direttore d’orchestra con cui studiare in conservatorio. C’erano dei casi, come Renzetti, che aveva studiato con Franco Ferrara, Mario Gusella, e ha questa dedizione e necessità di condividere la sua esperienza. Molti direttori sono legati esclusivamente alla loro attività, e sembrerebbe quasi che non vogliano trasmettere il loro bagaglio, forse per egoismo in qualche modo. Quando trovi delle persone come Marco Armiliato o Donato Renzetti, personalità geniali, sei fortunato, perché ti danno tutto. Renzetti insegna da molti anni a Pescara e molti bravi direttori sono usciti dalla sua scuola. Mi ricordo Michele Mariotti, che era alla fine del suo percorso quando io ho iniziato, Gianandrea Noseda, o Daniele Rustioni, che è entrato il mio stesso anno. Sono molto felice di aver scelto per istinto le persone da seguire. Da Marco ho imparato come curare i rapporti musicali e umani con i cantanti. Da Renzetti ho imparato la sua tecnica efficiente, che poi ho messo in pratica attraverso la mia sensibilità e la mia esperienza. E’ stato capace di darmi le basi tecniche per poi potermi esprimere, spiegando i concetti in modo chiaro, con grande generosità, e senza imporre nulla. Di Bychkov ricordo gli anni in cui è stato direttore musicale della WDR Sinfonieorchester Köln, e lì ho imparato tantissimo. Lui era molto rigido in quell’orchestra, dedicato completamente al repertorio tedesco. Oggi è molto più rilassato, nonostante diriga orchestre tedesche: è meno sotto pressione, anche se l’agenda è comunque molto ricca.
Dalla tua direzione si sente una grande attenzione verso le voci: da che cosa deriva questo amore per il canto? dal flauto?
Io canto malissimo, ma mi piace tantissimo cantare. Mi hanno sempre detto che per suonare qualsiasi strumento è necessario cantare, se no la musica non “viene fuori”. Per me la voce, e non è demagogia, è lo strumento più complesso che esista, perché è il più esposto a tutto. Il suono viene prodotto dall’interno del corpo, senza nessuna intermediazione. Durante una recita bisogna per questo aiutare il cantante, che è uno strumento umano, e quindi può avere delle serate imperfette. Il direttore deve cogliere queste sensazioni e assecondare il cantante, per non metterlo in difficoltà. Anche questo devo dire l’ho imparato da Armiliato: Juan Pons mi diceva, che i cantanti quello che valutavano prima di tutto di Marco, era la sua grande attenzione verso di loro e la sua capacità di “cantare” con loro, e di reazione a qualunque cosa succeda sul palcoscenico. E lì che l’opera “succede”. A me piace vedere i cantanti che ti trasmettono la loro comodità nel cantare, perché sentono che tu sei lì con loro. Amo lavorare per il palcoscenico, perché l’opera deve essere fatta per il palcoscenico: d’altronde il pubblico non vede la buca. E’ una cosa che mi appassiona. Ricordo gli ascolti da bambino: il flauto magico, il “Nessun dorma” di Pavarotti, la Boheme di Karajan con la Freni. Mi emozionavo, mi commuovevo….Mio nonno che era un musicista amatoriale era un grande wagneriano. Allora ascoltare Wagner non era così comune e frequente come oggi e così lui andava a Madrid per sentire le opere wagneriane e aveva la statuina in casa. Forse era una cultura wagneriana superficiale, non così approfondita, ma era profondamente affascinato dal grande organico orchestrale di Wagner: mi parlava sempre di Rienzi, che non è poi uno dei titoli migliori, Tannhäuser, I maestri cantori di Norimberga. A quell’epoca Wagner scatenava una profonda fascinazione per la sua grandezza. Per ora non ho ancora avuto la possibilità di sviluppare il mio percorso nel repertorio tedesco, nonostante io sia stato assistente di Bychkov in occasione della prima di Mahler per esempio, ma mai nel repertorio operistico. L’ho visto dirigere opera molte volte, un’occasione su tutte “Tannhäuser” al Covent Garden. “Tristan und Isolde” è un sogno che ho, insieme a “Der Fliegende Holländer”, dei Wagner meno complessi rispetto alla Tetralogia.
Parlando di sogni….quali sono i titoli nel cassetto?
Penso che quello che mi sta capitando dal 2008 (quando ho cominciato a fare una carriera internazionale e non più esclusivamente spagnola) è già un sogno, davvero! Volevo fare il direttore, “fare musica” era un bisogno e una passione, ma non avrei mai creduto di arrivare fino a qui. La mia epoca è stata quella in cui sono venuti “fuori” tantissimi direttori intellettuali, che alle prove d’orchestra venivano a fare dei discorsi lunghissimi, molto interessanti. La mia idea, che poi è quella celibidachiana, è che si può comunicare tutto attraverso i gesti. I discorsi servono se sono supportati dalla tecnica. Io penso che si possa fare tutto questo in meno tempo. Questo mi ha entusiasmato e fatto anche arrabbiare: seguire l’amore per la tecnica, il cui massimo esponente, io credo sia Carlos Kleiber. Vederlo dirigere è una grande lezioni: c’è tutto, il fraseggio, i colori, gli accenti, la morbidezza e la bellezza del suono. Così come Lorin Maazel o Zubin Mehta, ognuno con la sua tecnica. Il fine è comunicare con la tecnica, anche perché oggi non si hanno più i tempi di un tempo: Arturo Toscanini chiedeva trenta letture d’orchestra per un’opera. Oggi passiamo trenta giorni nel teatro, però non tutti i giorni con l’orchestra. Ci vuole quindi più prontezza, dicendo le cose giuste. Il direttore ha probabilmente più responsabilità: quando qualcosa non va io prima di tutto mi chiedo se è mia la colpa. Questo è molto importante. I miei sogni nel cassetto sono tanti, continuare a dirigere nei teatri come Verona, dove ho diretto “La Vedova Allegra” e arrivare nei grandi teatri del mondo. Questo è un sogno, che se però non si avverasse, non sarebbe un dramma. Mi piacerebbe dirigere alla Wiener Staatsoper, alla Scala, al Metropolitan…Quello che più mi piacerebbe è però fare tanto repertorio: fare con più frequenza Puccini (il prossimo ottobre debutterò in USA alla Minnesota Opera con “La Rondine”), Verdi (dirigerò a Las Palmas “La forza del destino”), dopo Otello, la trilogia popolare, Attila e Aida, che ho fatto anche in Italia. Forza del destino, come “Don Carlo” le dirigerei tutti i giorni. Anche Mozart: ho avuto la possibilità di fare una nuova produzione di “Idomeneo” a Strasburgo e ogni volta rimango sempre più conquistato dal suo genio celestiale, divino, dalla sua armonia irraggiungibile. Fare Vedova Allegra a Verona, è un sogno, una cosa troppo bella: una produzione che funziona così bene. Farò un concerto al Liceu e al Real è un grande sogno. Quando ho cominciato non avrei mai pensato di arrivare a dirigere in questi posti. Non ho frustrazioni nel voler raggiungere i miei obiettivi in fretta, sarebbe sciocco.
Parliamo della direzione de “La Vedova Allegra”….
La Vedova è un dolce raffinatissimo, di grande gusto. E’ un dolce che ha anche qualche amaro, l’amaro dell’amore non corrisposto, dell’amore senza futuro a causa di costrizioni sociali. Sono cose che continuano ad esistere ancora oggi: dolori che fanno parte anche della società attuale. I grandi temi sono il dubbio di Valencienne, la gioia e la voglia di divertirsi di Hanna Glavari, per non pensare all’amore. E’ veramente come la vita: in teatro si impara moltissimo, anche sull’amore puro. L’amore che nonostante gli imbrogli che combinano i personaggi (penso al Barone Zeta), trionfa nonostante tutto, anche senza i quattrini. Sono convintissimo che avanti va solo il bene, e non penso al bene morale o della chiesa, ma alle cose fatte per bene, con il buonsenso, la responsabilità e il senso di sapere ciò che è corretto. Il male può portare al successo, pensiamo ai politici corrotti, ma è un successo che si paga, perché viene sempre fuori la cattiveria del loro successo, anche se la giustizia non li condanna come dovrebbe. Mostrare nell’arte che solo il bene può portarti avanti è necessario. Questo l’opera ce lo insegna: Elisir d’amore….Dulcamara, il truffatore….l’arrogante Belcore. Il truffatore rimane fregato.

Non tutti i direttori però si avvicinano al genere dell’operetta…
“La Vedova Allegra” segue sicuramente il paradigma dell’operetta, però dal punto di vista musicale è un’opera: lo è perché ha un tessuto musicale operistico e un’orchestrazione operistica. Il duetto Valencienne-Camillo del II atto ha una raffinatezza musicale, che anche molte grandi opere non hanno. L’operetta più bella forse, o comunque quella più popolare. Questa definizione di operetta come un termine dispregiativo è una sciocchezza, perché ha le stesse esigenze, se non di più, di un’opera. Se qualcuno la considera come musica meno elaborata, io come interprete posso assicurare che per una musica meno raffinata, ci vuole più lavoro ancora per renderla “viva”. E’ una sfida bellissima, che porta grande gioia. E’ una gioia che ti dà grandi soddisfazioni. E’ veramente divertente, non ci si annoia mai. Qualche volta nei finali anzi ti porta ad avere un grandissimo entusiasmo. Nel finale I c’è per esempio quella linea musicale, che porterà poi a “Il cappello di paglia di Firenze” di Nino Rota. E’ la madre di quella musica. C’è un’azione trepidante, un cangiare di colori. E’ bellissimo dirigere il ballo sulla musica di Offenbach, con quei ballerini bravissimi, assolutamente trascinante. Il bello della Vedova è poi vedere il pubblico che si diverte, grazie anche alla strepitosa Maurisa Laurito. La Vedova è un amore giovane. C’è anche quel legame con il primo amore, idealizzato: un amore che non si è compiuto, che è rimasto come un piccolo “trauma” e che guarisce. Mi emoziono solo a parlare di quest’opera, mi piace troppo.
Verrebbe da pensare ad una analogia tra la vedova e “La Rondine” che dirigerai alla Minnesota Opera…
“La Rondine” è la stessa cosa: non è assolutamente un’operetta, come molto spesso la si classifica….è un’opera bellissima e molto drammatica…
L’anno prossimo dirigerai anche “Lucia di Lammermoor” a Ferrara: come ti rapporti con i tagli?
So bene che è necessario che uno spettacolo sia dinamico, ma tanti tagli li trovo veramente crudele. Spero che oggi nessuno per esempio abbia il coraggio di tagliare il duetto della torre. Certo è una pagina molto difficile per il tenore, perché dopo deve reggere il finale (soprattutto se lo fa in tono). Prossimamente per esempio farò “La Forza del destino” a Las Palmas, del tutto integrale: anche quella è un’opera che non scherza per difficoltà. Molto spesso si dice che l’opera più difficile per il tenore sia Otello, ma la parte di Alvaro è ancora più terribile secondo me. Il mio unico argomento valido a favore di un taglio, è il reale bisogno di uno dei solisti principali. In questo caso tutti sono felici, anche il tenore Aquiles Machado, e non vogliono tagliare nulla. Per quanto riguarda Lucia agisco in questa maniera: se un cantante rende meglio e figura meglio senza il raddoppio della cabaletta, per farlo riposare o non faccio il taglio di tradizione, oppure taglio otto battute, alleggerendo il carico, per poter in qualche modo fare la cabaletta due volte. E’ un discorso anche di struttura formale: i tagli si sentono. Le edizioni storiche di Lucia avevano praticamente la metà dell’opera, praticamente degli highlights (ride)….ma sono incisioni bellissime da ascoltare. In quell’epoca nonostante ci fossero dei direttori d’orchestra incredibili, Molinari-Pradelli, Serafin e tanti altri, i cantanti avevano la possibilità di scelta. C’erano dei cantanti con un carisma diverso, come era diverso il pubblicato il pubblico e la società. C’erano meno interferenze in essa, e quindi essere in contatto con la vera arte è diventato più difficile. L’opera può davvero insegnare: penso ai Donizetti seri, che parlano della storia di Inghilterra.
Siamo a Verona: ti piacerebbe dirigere in Arena e che titolo ti piacerebbe proporre?
Come potrei dire che non mi piacerebbe: sarebbe un altro sogno. Se capitasse di ricevere un invito per dirigere qui non vedrei l’ora, perché so cosa vuol dire stare in quella platea come pubblico, so la magia che si crea in questo spazio unico al mondo. Ho una grande considerazione di questo teatro, perché dal 1913 è passato tutto il meglio della storia dell’opera. C’è anche un legame emozionale con i tantissimi cantanti spagnoli che sono passati da questo palcoscenico, che sono finiti anche nel dimenticatoio, come succede anche a tanti italiani. Questo perché alcuni non hanno un lascito discografico consistente: così capita che pensiamo più a Pavarotti che non a Tamagno. Pavarotti è unico e irripetibile, mentre di Tamagno non abbiamo lo stesso numero di testimonianze, e soprattutto testimonianze attendibili. Se penso all’Arena mi viene in mente Tullio Serafin, che è stato direttore della prima Aida. Al MET nel programma di sala c’è sempre la pubblicità dell’Arena, perché per gli americani è il Metropolitan dell’estate. La personalità è un po’ la stessa: grandi nomi, grandi produzioni, grandi direttori e un posto monumentale. Il titolo a cui penso è Aida, naturalmente.
Qual è l’augurio che ti fai per il tuo 2018?
Mi auguro di continuare ad essere felice con la musica, e di ricevere sempre le tante gioie che questo lavoro ti dà. Non cadere in nessun tipo di routine, continuando ad emozionarmi ogni giorno, facendo musica con i colleghi, condividendo con i tanti cantanti che conosci, con i quali si crea un’amicizia, anche rimanendo in contatto, visto che non ci si può rivedere con frequenza. Vorrei continuare ad essere così appassionato: amo quello che faccio e non ho altro desiderio se non continuare a fare quello che mi piace.
Grazie a Sergio Alapont per la disponibilità e In bocca al lupo!
Francesco Lodola