
Mettere in scena “La Traviata” è sempre una grande sfida, sia in un grande teatro, che in un teatro della cosiddetta provincia. Traviata non è un’opera come le altre: è diventata un mito, un paradigma del teatro musicale. La grandezza di questa “puttana” parigina (parole di Giuseppe Verdi) sta nel fatto di aver attraversato tutte le arti ed essere diventata simbolo di un’epoca e icona di tutti i tempi.
Per questo motivo dal punto di vista registico creare una propria visione di Traviata è incredibilmente difficile, perché ormai si è visto tutto. La nuova produzione di Teatri e Umanesimo Latino Spa nata sul palcoscenico del Teatro Comunale “Mario Del Monaco” di Treviso arrivava con due recite, 16 e 18 febbraio (recita da noi vista) al Teatro Sociale di Rovigo, storico baluardo della tradizione melodrammatica, luogo di debutto di Beniamino Gigli ne “La Gioconda” nel 1914 e di Renata Tebaldi in “Mefistofele” nel 1944, ma anche di una delle prime Aida di Maria Callas del 1948 e il Duca di Mantova di Luciano Pavarotti nel 1962.

Alessio Pizzech riesce in parte a risolvere il difficile rebus registico di Traviata, non del tutto. Il gioco scenico è efficace, così come le dinamiche relazionali tra i personaggi. Convince il rapporto così carnale tra Violetta e Alfredo, che diventa possesso e un bisogno fisico di affetto, da parte di entrambi. Colpisce il rapporto tra Alfredo e suo padre: probabilmente il ragazzo è stato vittima della violenza fisica di suo padre, tanto che non appena questi gli si avvicina, lui si accovaccia e si protegge il capo. Germont è più squallido che mai, è il rappresentante dell’ipocrisia ottocentesca. Interessante la soluzione teatrale per il duetto con Violetta: nella prima parte lui sovrasta e domina la fanciulla distesa sul letto, mentre nella seconda parte si inginocchia ai suoi piedi, curvato davanti alla purezza di Violetta, che si erge a monumento di candore, grazie al suo sacrificio. Ben realizzata anche l’isteria di Violetta, tratto caratteristico della tisi, con un continuo alternarsi di stati d’animo. Meno felice risulta la movimentazione delle masse, soprattutto nel primo atto, e la soluzione della sedia a rotelle, che risulta in qualche momento un ingombro.

Oltre a questo non abbiamo trovato particolarmente efficace il continuo riproporre del fazzoletto coperto del sangue espettorato da Violetta: è una soluzione non nuova (anche Özpetek nella sua Traviata ha utilizzato questo espediente) e neanche necessaria e infatti accolta all’ennesima volta nell’ultimo atto con qualche borbottio.
Le scene di Davide Amadei sono essenziali, dotate di pochissimi arredi, ma efficaci. Manca il lusso del primo atto e del secondo quadro del II atto, ma la cifra intima di Traviata è colta e ben disegnata. Troppo violente le luci di Roberto Gritti, con soluzioni cromatiche un po’ troppo invadenti. Minimali i costumi dello stesso Amadei: non ci aspettavamo grandi crinoline, ma un po’ più di fantasia si. La ricca (almeno nel primo atto) Valery indossa una camicia da notte bianca, coperta da tre diverse vestaglie: particolarmente coraggiosa la prima, in viola acceso.

Ma questa è una Traviata delle voci e dell’orchestra.
Francesco Ommassini dirige Traviata con grande trasporto, riuscendo a cavare dall’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta, un suono rotondo e dalle ampie varietà coloristiche. Suggestiona l’uso della dinamica, dai più impalpabili pianissimi, ai forti più avvolgenti, senza mai sovrastare il canto, ma sempre accarezzandolo e “coccolandolo”, con sensibilità rara. Lo lodiamo anche per averci restituito un’esecuzione integrale, con tutte e due le strofe dell’aria di Violetta del I atto e di “Addio del passato”, così come la ripetizione delle cabalette di tenore e baritono e l’apertura dei tagli in “Parigi, o cara” e “Gran Dio! Morir sì giovine”, così come delle frasi nel finale. Ommassini lo ha potuto fare anche grazie al cast che aveva in palcoscenico, degno di un grande teatro.

Francesco Landolfi è un Germont padre di ottimo spessore, capace di un fraseggio mobile, cogliendo solide frasi stentoree e morbidi accenti. Buonissima l’interpretazione della grande aria “Di Provenza il mar, il suol”, così come piena di intelligenza l’esecuzione della cabaletta, capace di rendere giustizia ad una pagina giudicata “bruttarella” da molti, ma assolutamente necessaria nello sviluppo drammaturgico.
Leonardo Cortellazzi è un Alfredo ideale, vocalmente praticamente ineccepibile, ma soprattutto in grado di rendere finalmente interessante il personaggio. Solitamente Alfredo è uno stupido, un tontolone senza spina dorsale. Qui invece grazie al bravo tenore mantovano è una personalità più complessa, piena di conflitti, sempre al limite della crisi, e innamorato in maniera malata di Violetta. La difficile aria di inizio secondo atto è miniata con gusto e con solare vocalità belcantista, così come la cabaletta, in cui è efficacemente realizzata la spavalderia epicheggiante del pezzo. Grande rilievo anche nelle frasi del finale (“No, non morrai, non dirmelo Dei viver, amor mio..”) prepotentemente intense.

La Violetta di Gilda Fiume è però quasi sconvolgente. Inizia il primo atto con frasi che sembrano quasi un soffio (Violetta è già moribonda) e nell’aria del primo atto è tutto un fiorire di pianissimo e filati infiniti. “Sempre libera” è cantato la prima volta con rabbia, mentre nella seconda è interiorizzato, impaurito, fino al finale, i cui abbracciando Alfredo presente in scena, culminante nel Mib, bellissimo e brillantissimo. Il II atto la vede grande fraseggiatrice in “Ah, dite alla giovine” e un’esplosione di passione inespressa in “Amami Alfredo”. Nel grande concertato della festa di Flora domina con grande sensibilità. Il III atto è un trionfo di commozione in “Addio del passato” preceduto da una lettura della lettera di superba eleganza, e di intimo sentire. Cosa ce la rende sconvolgente? Le frasi, le parole su cui nessuno pone l’attenzione. I due “È strano” del recitativo del finale primo, detti uno con passione e l’altro con timido turbamento, o le acciaccature di “Parigi, o cara”, così profondamente espressive. La Fiume possiede il segreto di saper piangere con la voce e di utilizzarla per arrivare al cuore del personaggio e del pubblico. Una Violetta per cui abbiamo pianto molto e che terremo bene a mente per lungo tempo.

Nei ruoli di fianco ricordiamo l’ottima Flora di Valentina Corò e la sensibilissima Annina di Arianna Cimolin. Completavano il cast Diego Rossetto (Gastone), Michele Soldo (Barone Douphol), Fabrizio Zoldan (Marchese d’Obigny), Zhengji Han (Dottore), Andrea Biscottin (Giuseppe), Luca Scapin (domestico/commissario).
Bene anche il Coro Benedetto Marcello diretto da Francesco Erle.
Francesco Lodola
Rovigo, 18 febbraio 2018