Aya-Wakizono-2-866x1024Il Giappone ama l’opera lirica italiana, ama il canto e la cultura. Per questo sono moltissimi sono i cantanti nipponici che vengono a studiare nel nostro paese: pochi però sono quelli che riescono a diventare delle stelle. Una di questi è Aya Wakizono, giovane mezzosoprano di grandissimo valore, grazie a vocalità privilegiata e intensità d’interprete e di attrice. Lo scorso anno ci ha incantati come Romeo ne “I Capuleti e i Montecchi” al Teatro Filarmonico di Verona , e quest’anno nello stesso teatro, si rinfila i calzoni per essere Cherubino ne “Le Nozze di Figaro” (31 marzo e 5 aprile 2018). Durante le prove ci ha concesso del tempo, per raccontarci la sua grande avventura nel mondo dell’opera.

Dunque, come sei passata dall’amore per il musical al canto lirico?
Non conoscevo il mondo della lirica, sono infatti cresciuta guardando i film di Julie Andrews e Barbara Streisand, e ammiravo queste attrici: delle vere dive. Sin da piccola avevo la passione per il teatro, perché i miei genitori avrebbero voluto fare gli attori di prosa, ma hanno dovuto smettere per creare la famiglia e per crescere me e mio fratello. Ho sempre amato recitare e cantare, ma all’inizio volevo diventare medico. Però ad un certo punto, quando avevo quindici anni, mi sono chiesta il motivo per cui volessi diventare medico. A quell’epoca dopo la scuola facevo teatro in inglese, e mettevamo in scena “Les Misérables”, “The Sound of Music” o “West Side Story” e mi sono domandata: “perché non posso continuare a fare questa cosa bellissima che mi dà gioia profonda?”. Da quel momento ho cambiato la mia strada e ho iniziato a studiare canto. Volevo diventare un’attrice di musical, ma per farlo dovevo avere una mia specialità, poteva essere il canto o la recitazione. La danza l’ho imparata, ma non ero molto sicura. Ho scelto il canto e di approfondire il suo studio, partendo dalla base. Ho studiato con una cantante che aveva frequentato l’Università di Musica e che mi ha consigliato di intraprendere lo stesso percorso. Prima dell’ammissione all’Università, ho assistito ad una recita della tournée della Metropolitan Opera, in cui Renée Fleming interpretava Violetta ne “La Traviata” e lì mi sono innamorata della lirica. Mi ricordo ancora perfettamente la scena, l’atto secondo, dopo che Germont padre ha lasciato Violetta, e lei scrive la lettera ad Alfredo e c’è quell’assolo meraviglioso del clarinetto…sono caduta vittima di questo incanto. Quella sera ho deciso che avrei voluto fare questo per tutta la vita!

IMG_4713Un’illuminazione…però opera e musical hanno in qualche modo un contatto…
Sì, però in quel momento ho capito che l’opera lirica è la forma teatrale più “completa” e “assoluta”. Anche adesso però continuo ad avere una grande passione per il musical…

Oggi che molti teatri d’opera mettono in scena i musical di Broadway c’è qualche titolo che ti piacerebbe interpretare?
Il problema è che per la mia vocalità di mezzosoprano non ci sono molti ruoli. Adoro Cunegonde di “Candide”, ma è un soprano di coloratura estrema. Mi piacerebbe moltissimo Maria di “West Side Story”, così come Anita, ma quest’ultima deve saper ballare anche molto bene.

Quali sono i vantaggi invece della scuola del musical nella lirica di oggi, dove viene richiesta una recitazione sicuramente più accurata?
Non so se sono avvantaggiata dal mio percorso nel mondo del musical, ma sicuramente mi diverto molto a recitare. Sto sempre attenta a non fare troppo, per non distruggere lo stile. La lirica ha una sua tradizione, degli stili e una forma, che possono dipendere dall’epoca e dallo stile di quel determinato compositore.

Soprattutto nel “tuo” repertorio belcantista, che è formalmente abbastanza strutturato…
Certamente…c’è bisogno solo della volontà di esprimere. Penso al mio Romeo ne “I Capuleti e i Montecchi” qui a Verona, e mi ricordo anche quel periodo. Dovevo fare Rosina ne “Il Barbiere di Siviglia” al Teatro Verdi di Trieste e Romeo a Verona, e quest’ultimo era un debutto di ruolo per me. Non avevamo moltissimo tempo e ero molto ansiosa. Ne ho parlato con la mia maestra, Mariella Devia, spiegandole e confessandole di questi due impegni molto ravvicinati, e lei mi ha detto che non avrei dovuto accettare. Ho imparato molto da questo, soprattutto come gestire la mia carriera e il mio tempo. Io personalmente sono “lenta”, nel senso che ho bisogno di tempo e di tanta cura e delicatezza per preparare un ruolo. Dopo “I Capuleti e i Montecchi” ho iniziato a studiare stabilmente con un mezzosoprano che ha fatto una gloriosa carriera tra gli anni ’50 e ’80, Bianca Maria Casoni, e mi ha totalmente cambiato il mondo e il modo di vedere il canto. Ora per me cantare è diventato una gioia perenne, lo è sempre stato, ma ora ancora di più, perché sento che riesco a cantare con l’anima, senza perdere lo stile e il controllo. Lei mi dice sempre che la lirica non è una competizione, dove devi fare i sovracuti o la voce “grande”, ma è un’arte così delicata e curata, dove il cantante deve esprimere la differenza del colore e dell’odore addirittura, della parola e della frase musicale. Un’altra cosa che mi ha detto e che mi è rimasta impressa è di non tradire mai la propria voce, quella che il cielo ti ha donato.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Noi percepiamo spesso la voce come una nostra proprietà, ma invece viene dal cielo, da Dio. Dunque devi sempre curare la tua voce, capire che l’aria passa tra le corde vocali, queste piccolissime membrane mucose che creano la magia. La maestra Casoni inoltre mi ha presentato Irina Lungu, che è stata una sua allieva e che è stata la mia Giulietta nei Capuleti veronesi. Con Irina mi sono trovata veramente bene e mi ha insegnato tantissime cose. Devo davvero ringraziarle tutte e due. E anche in questo senso, nonostante un periodo impegnativo, il mio debutto a Verona con Romeo è stato molto importante, fondamentale e fruttuoso.

Parliamo anche del rapporto con la tua altra grande maestra, Mariella Devia…
Con la signora Devia ho fatto nel 2011 una masterclass a Tokyo, quando ancora frequentavo l’Università. In quel periodo soffrivo perché non riuscivo a cantare gli acuti. Ho portato l’aria di Elisabetta da “Maria Stuarda”, e lei mi ha “distrutto” (ride)…Alla fine della masterclass ho fatto (confesso) la domanda più stupida del mondo: le ho chiesto come faceva a fare i suoi acuti spettacolari. Allora mi disse che a Tokyo ci sono tantissimi grattacieli, ma questi non si costruiscono dalla cima. Le ho chiesto di studiare insieme, ma lei era molto impegnata e quindi non ha potuto accettare. Fino a quel momento avevo preso in considerazione di spostarmi negli Stati Uniti o in Germania, perché probabilmente ci sarebbe stata anche la possibilità di lavorare. Volevo uscire dal Giappone, perché pur sentendomi giapponese, mi sentivo sempre “scomoda”, poichè ho un carattere troppo diretto forse. Però in quell’istante ho deciso di venire in Italia, perché volevo sapere tutto della cultura del canto. Ho capito che esiste la tecnica e lo stile del canto italiano, che si può imparare solo in Italia, ovviamente dalle persone giuste. Sono arrivata a Parma, al Conservatorio “A. Boito”, ma cercavo sempre la Devia, la sua “ombra”. Aya-Wakizono-la-Marchesa-ClariceDurante il primo periodo non parlavo bene l’italiano e mi rinchiudevo sempre in casa a guardare i video, sentire registrazioni, e leggere libri di tecnica vocale. Dopo sei mesi però ho fatto l’audizione per l’Accademia rossiniana di Pesaro. Avevo paura perché erano solo sei mesi che mi trovavo in Italia, ma la mia voglia di sfidarmi ha vinto e l’ho fatta. In quell’occasione ho conosciuto il Maestro Alberto Zedda, che è stato un altro grande insegnante per me, di musica, ma anche di vita. Mi ha dato dato e mi ha influenzato moltissimo. Subito dopo sono stata ammessa all’Accademia della Scala. Posso dire di essere “diventata” italiana grazie a queste due esperienze a Pesaro e a Milano, perché ho avuto un’educazione italiana sul canto e ho vissuto con un bel gruppo di altri cantanti e non solo, con i quali non potevo altro che parlare italiano. Se vuoi cantare l’opera italiana devi avere padronanza assoluta della lingua. Il canto è canto perché contiene le parole, nasce da esse. Questo l’ho capito grazie a queste due scuole. Comunque mentre facevo l’Accademia della Scala, ho finalmente trovato una masterclass che faceva Mariella Devia vicino a Napoli, in una villa in campagna. Finalmente quindi, dopo quattro anni, sono riuscita a farmi sentire dalla mia “Santa” Mariella (ride). Ero emozionatissima, ma mi piaceva sfidarmi davanti ad una maestra esigente. Alla fine di questa masterclass, in cui abbiamo lavorato veramente bene, in un’atmosfera accogliente e quasi “casalinga”, le ho chiesto nuovamente di poter studiare con lei, e lei finalmente ha accettato. Da quel momento ho cominciato ad andare a lezione da lei, ogni tre mesi, perché lei è molto impegnata. Per me è come andare in chiesa, è ogni volta un rinnovamento dello spirito. E’ una persona straordinaria, adorabile, semplice e diretta. Ti dice sempre quello che pensa, e questo è molto importante, perché è costruttivo. Ti insegna a non “adagiarti”, ad essere sempre critici, a non accontentarsi, ma a cercare sempre di migliorare.

C’è qualcosa che oggi mentre studi ti viene in mente delle parole del Maestro Zedda?
Certo che sì! Mi diceva sempre che le agilità rossiniane e non solo, non devono essere una gare per dimostrare la perfezione della tecnica, ma devono essere una forma di espressione e dell’esplosione dell’emozione, che può essere gioia, rabbia, tristezza, o disperazione, senza mai perdere di vista il controllo e lo stile. Diceva che bisogna sempre cantare con il cuore, perché senza emozione non c’è musica. Devi ricercare la morbidezza nel canto. Oltre a questi consigli pratici, soprattutto mi ha influenzato il suo modo di vivere: lui ha dedicato tutta la sua vita alla musica di Rossini. Credo che ci siano stati anche tanti sacrifici, ma la sua forza e la sua passione hanno vinto, fino alla fine. Anche io vorrei essere così. In un certo senso anche la Devia è così. Credo che se tutte le persone vivessero così, come dice Mozart in “Die Zauberflöte”, il mondo sarebbe senza guerre e conflitti, perché tutti sarebbero felici e concentrati nelle loro passioni.

1902017_FotoEnneviVAL_9912_20170219Quali sono le difficoltà per un’asiatica in occidente e che si confronta con il mondo dell’opera lirica, anche sul palcoscenico?
La cultura dell’opera è vostra, e io cerco di non dimenticare mai di essere entrata in un mondo culturale degli altri. La lirica non sarà mai la “mia” cultura, però il mio amore è immenso per quest’arte e durerà per tutta la vita. Quando vedo che qualcuno rimane sorpreso di vedere una giapponese che canta l’opera, io lo capisco e lo accetto, però allo stesso tempo cerco di carpire la cultura e lo stile e avvicinarmi il più possibile al vostro modo, anche di vivere. Non voglio smettere neanche di imparare bene la lingua italiana, e ho ancora molto da leggere per esserne completamente padrona. Recentemente il mio compagno, che è fiorentino, mi ha consigliato di leggere Alda Merini e sono rimasta incantata dalla sua delicatezza…una vera artista.

Parliamo invece di Cherubino, che debutterai in questi giorni al Teatro Filarmonico di Verona…
Non canta moltissimo, ma è il personaggio che rimane più impresso al pubblico. In questa regia di Mario Martone (ripresa da Raffaele Di Florio), è richiesto di mettere in evidenza il lato più adolescenziale del personaggio. Sicuramente è un uomo, ma è un giovane uomo, quindi è molto energico. Per un’asiatica il movimento del corpo è totalmente diverso. Fortunatamente abbiamo una coreografa bravissima, Anna Redi, che mi ha fatto una lezione sui movimenti, perché secondo lei ero troppo “geisha”, un po’ chiusa, e mi ha dato dei consigli importantissimi, aprire le braccia e il busto, con morbidità, ma con grande controllo del baricentro e della verticalità del movimento. Lo stesso aspetto lo si trova nell’impostazione vocale di noi orientali, poiché tendiamo a non “aprire” verticalmente la bocca per esempio. E’ una cosa che si riscontra anche nelle arti visive e nell’architettura orientale, dove c’è una tendenza alla bidimensionalità. La vostra cultura, anche i vostri visi, sono tridimensionali, mentre i nostri tendono ad essere schiacciati. E’ una differenza da capire, molto importante. Cherubino è sempre così svelto, ma vigoroso…

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©Brescia-Amisano/Teatro alla Scala

Una vera tempesta ormonale si direbbe…
Si…”Non so più cosa son, cosa faccio”….però è sempre elegante, non è un contadino. Cherubino ha un suo delicato equilibrio che è un po’ difficile da trovare. Ogni prova è una ricerca!

Anche Romeo in quanto ad ormoni non scherzava…
Sì, ma lui è più maturo nonostante tutto. Cherubino è più simbolico, è un angelo-demone, Cupido…

Quali saranno i tuoi prossimi ruoli?
Prossimamente debutterò Dorabella in “Così fan tutte” al Teatro Verdi di Trieste e non vedo l’ora. Quindi tra Cherubino e Dorabella questo è un periodo molto impegnativo. Subito dopo sarò in Giappone per “La Cenerentola” e poi quest’estate sarò a Pesaro, al ROF, per Rosina nel Barbiere nel nuovo allestimento del Maestro Pier Luigi Pizzi. Con il maestro Pizzi ho già lavorato due volte: la prima a Martina Franca in “Francesca da Rimini” di Mercadante con Fabio Luisi e con giovani e strepitosi cantanti. Ci siamo trovati benissimo insieme, è un’artista di un’altra epoca e un uomo d’altri tempi, come Zedda e la Devia, con questa dignità ed eleganza e una sensibilità artistica unica. E’ sempre un piacere lavorare con lui, perché ti lascia lo spazio di fare il ruolo con dei piccoli suggerimenti suoi, ti dà i giusti stimoli. Non parla molto, ma agisce e ti fa capire. Sento questa bella connessione con lui.

Aya-Wakizono-e1453035964952C’è qualche ruolo che sogni…magari Ermione? Che è stato l’argomento della tua tesi universitaria…
Si, assolutamente…la adoro! Però devo aspettare di crescere vocalmente e artisticamente. E’ un ruolo Colbran, quindi molto arduo e che richiede una grande maturità. Il Maestro Zedda però mi suggeriva questi ruoli, poiché la mia voce è brillante in acuto e posso affrontare anche tessiture anfibie se non sopranili. Prima devo debuttare i ruoli mozartiani, quindi Cherubino e Dorabella, e poi il prossimo anno canterò Donna Elvira in “Don Giovanni” in Giappone, completando così la trilogia dapontiana. Donna Elvira è appunto un ruolo sopranile, con tessitura molto acuta. L’ho già affrontata in passato, addirittura ai tempi dell’università, e mi trovavo molto bene in questa tessitura. Vorrei debuttare moltissimo Adalgisa in “Norma”, Sara in “Roberto Devereux”, Elisabetta in “Maria Stuarda” e Giovanna Seymour in “Anna Bolena”.

Grazie a Aya Wakizono e In bocca al lupo! 

Francesco Lodola

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