Agli inizi del XIX secolo, giunse in Italia un genere di teatro musicale per molti aspetti nuovo. Proveniva dalla Francia, e in un paese che, dopo le glorie di Paisiello e Cimarosa era fortemente in cerca di un nuovo campione del teatro comico, queste piccole pieces così disinvolte e agili conobbero immediatamente un grande successo, in particolare nei teatrini che animavano vivaci i campielli e le calli di Venezia. San Benedetto,San Moisè, San Luca sono solo alcuni dei nomi delle sale che, all’ombra della Fenice, ospitavano i lavori di compositori per la maggior parte oggi sconosciuti. La Farsa, o Burletta, ben presto diventò il nuovo campo di prova per il teatro buffo.
Rispetto alla commedia per musica, aveva un carattere più maneggevole, spesso in un atto, pochi personaggi, un plot che si ripeteva pressoché identico; l’archetipo, certamente, era ancora quello dell’opera buffa, ne era conservato il meccanismo degli intrighi che si intersecano l’uno con l’altro. Ma era come vederne una versione-giocattolo, i reciproci movimenti fra i personaggi erano semplificati, ridotti alla loro condizione essenziale, sia in numero sia in complessità. L’azione scenica risultava perciò più snella, ma ugualmente esilarante. Lo stesso avveniva per le categorie drammatiche e per i caratteri umani: il comico appariva non “sgrezzato” da alcun tipo di raffinatezze, come l’elemento sentimentale veniva raffigurato in scena con una immediatezza e una semplicità quasi da commedia dell’arte. I personaggi, fedeli nei loro ruoli stabiliti, si liberavano delle pur splendide sfaccettature psicologiche che Mozart aveva loro donato, per mettere di nuovo in rilievo la loro “tipicità”, la schematicità limpida di maschere compiute esclusivamente nella loro funzione drammatica, che si rinnovava in ogni composizione. L’Italia insomma adattò con abilità il genere francese, attraverso la valorizzazione di alcune vecchie consuetudini dalle quali l’intermezzo, un secolo prima, si era sviluppato fino a diventare in seguito lavoro indipendente, opera buffa.
Oggi un solo nome è associato a questo tipo di composizioni, quello di Gioachino Rossini, le cui farse sono pressoché le uniche a essere ancora rappresentate (e ciò in gran parte grazie all’attenta rivalutazione critica che il repertorio rossiniano ha subito nell’ultimo trentennio del XX secolo). Rossini debuttò con tale genere, che ben si confaceva all’idea della “gavetta”: pezzi piccoli, facili da assemblare in poco tempo (secondo le esigenti e talvolta rocambolesche maniere contrattuali dell’epoca) e che non richiedevano necessariamente un cast di primo ordine; anzi, spesso venivano date alla luce con un carattere che aveva molti punti in contatto con l’amatoriale. Ciononostante, Rossini non si limitò a seguire un indirizzo artistico stabilito, e fece pratica su questo genere, che non costituì solo il retroterra dal quale, in fondo, le sue commedie più mature e raffinate prendono spunto; bensì, si trasformò in un’occasione di sperimentazione spesso ardita, ma senz’altro di grande interesse, dove, dal punto di vista tecnico-compositivo, l’insegnamento di Mozart (non troppo celebrato in verità nell’Italia musicale di padre Martini) non viene messo da parte: punto centrale di questo percorso interno al genere della farsa, La scala di seta.
Alle basi sta un libretto che venne commissionato a Rossini nel 1810, dal Teatro San Moisè a Venezia. Si trattava di una piece da una commedia di Camillo Frederici, che aveva debuttato nel 1791, La cambiale di matrimonio. Trama piuttosto in voga in un’epoca in cui l’istituzione matrimoniale, momento di associazione di classe dove le debolezze di portafoglio dell’aristocrazia trovavano finalmente un interlocutore nella ricerca di affermazione sociale della ricca borghesia, era oggetto di varie satire. In Inghilterra, da Hogarth a Jane Austen. A Vienna, l’elemento satirico si era inserito nella commedia sentimentale di Cimarosa (1792).
Nel libretto che venne dato a Rossini, lo scambio matrimoniale avviene fra due mercanti, uno inglese e l’altro canadese; si evidenzia perciò anche una leggera patina di commedia di costume, dove il buffo scaturisce anche dal confronto fra la compostezza del padre di Fanny (Tobia) e la dabbenaggine un po’ caciarona e rampante di Slook, “negoziante americano” cui la ragazza è stata data in sposa tramite cambiale. L’assurdo mezzo di questa contrattazione, che equipara Fanny a una transazione commerciale, è sufficientemente evocativo della satira sociale di cui si diceva sopra. Sennonché Fanny è innamorata dell’amico di famiglia Edoardo, che però non ha alcun diritto di partecipazione al deal in quanto non possiede alcun documento per riscuotere la povera ragazza. La vicenda si conclude in breve con Slook che, mosso da generosità e comprensione della relazione segreta fra Fanny ed Edoardo, gira la cambiale a favore di quest’ultimo, fornendolo così della credibilità finanziaria necessaria per sposare Fanny. Il lieto fine non comporta comunque lo smussamento della componente satireggiante: è implicito ma chiaro come Edoardo debba prima venire in possesso della cambiale sia perché questa è il corrispettivo di Fanny all’interno dell’affare, sia perché deve appunto dotarsi di un titolo di credito nei confronti di Tobia.
La vicenda, non eccessivamente complessa e composta di pochi personaggi (quattro principali e due domestici di Tobia che aiutano i ragazzi), costituisce un terreno edificabile per alcuni numeri musicali. E’ significativo osservare come già a questa sua prima sperimentazione comica Rossini stabilisca alcuni “punti fermi” che, già attestati nelle opere buffe settecentesche italiane, diventeranno gli architravi della sua drammaturgia musicale anche in seguito. Innanzitutto l’arrivo in casa di Slook (“Grazie! Grazie”), aria di sortita del buffo che, ricollegandosi un po’ a Cimarosa, trascorrerà fino al Dandini di Cenerentola, sia per tono musicale sia per collocazione all’interno della composizione.
Al centro della composizione è un terzetto. Rossini si servirà spesso nelle sue farse di queste forme collettive, che riuniscono a seconda tutti i personaggi o, come qui nella Cambiale, solo i principali. La ragione potrebbe essere di natura strutturale: in un atto unico, questo insieme funziona come perno musicale e drammatico della composizione; collocato al centro, costituisce l’acme drammatico della prima parte della vicenda, e la divide dalla porzione restante. In più utilizza questa posizione di rilievo per unire i cantanti in un numero di relativa complessità. In opere di più vasta concezione, in due atti, questo ruolo è svolto certamente dal finale del primo atto, ma in Rossini anche in un numero collettivo che di solito si trova a metà del secondo, come per esempio nell’Italiana in Algeri (quintetto n°13) e nel Barbiere di Siviglia (stesso numero, identica posizione).
Il duetto dei buffi era una convenzione del teatro comico italiano; costituiva sia una prova di bravura per gli interpreti, che dovevano confrontarsi fra loro a colpi di sillabati, vocalizzi e parlanti, sia un momento di grande effetto teatrale per il pubblico, che allo stesso tempo era sorpreso dalle trovate virtuose sempre nuove e dal divertente confronto fra due personaggi spesso esilaranti. Rossini ne fa un elemento costante nella sua costruzione drammatica e musicale per quanto riguarda le farse. Nelle commedie successive invece cambierà morfologia, diventando a volte un terzetto (dei Pappataci, nell’Italiana in Algeri), per poi riapparire in Cenerentola. Significativamente, non è presente nel Barbiere, che è la composizione forse più lontana dall’idea della farsa che Rossini elaborò. Qui nella Cambiale, l’autore rivela già una tecnica sorprendente nella scrittura di questo numero. Costruito su quattro parti, il confronto fra Tobia e Slook alterna una prima sezione di prevalente sillabato a una seconda più fluente; la terza è un recitativo con orchestra, la cui comparsa genera un effetto insolito rispetto al dinamismo precedente. Ma subito riprende il bisticcio a sillabati, e le due voci si avvicinano fino a concludere la quarta sezione in un a due di crepitante vivacità.
Dopo l’aria di Fanny (bipartita, come di consueto), inizia il finale. Il numero, anche in questa prima farsa, è abbastanza esteso, e in modo progressivo e dinamico, utilizza le varie parti di cui si compone per risolvere la vicenda e allo stesso tempo mettere in scena tutti i personaggi, che devono, a trama ormai già conclusa, trarre la morale dalla storia, che occupa i versi e le note conclusivi della composizione. Convenzione anche questa dell’opera buffa, che Mozart aveva valorizzato, non può mancare in una farsa, la cui semplicità e chiarezza evoca immediatamente un insegnamento, o in modo forse più realistico e meno rigido, un sorriso degli stessi attori, al proscenio, sulle vicende appena inscenate.
Stefano de Ceglia