WhatsApp Image 2018-05-24 at 01.23.38Magda Olivero li chiamava i “gregari”, quei cantanti che non interpretato un ruolo principale, ma stanno a fianco ai protagonisti e sono il vero sostegno dell’opera. Non è così difficile uscire da teatro e ricordarsi più l’interprete del ruolo di fianco, che non il protagonista. Noi come la grande Diva Olivero vogliamo seguitare a chiamarli così, per sottolineare quanta professionalità ci voglia per affrontare determinati ruoli. Sono caratteri che non debbono essere di ripiego per un cantante che non riesce ad emergere nelle prime parti, ma deve essere l’opera di uno specialista, che ha delle particolari caratteristiche personali, e una forte propensione alla recitazione. Avere un gregario che abbia tutte queste doti diventa un lusso per uno spettacolo, anzi diremmo di più, ne può diventare il punto di forza. Nicola Pamio appartiene a quella schiera privilegiata di grandi gregari che aggiungono un fattore di qualità nelle produzioni a cui partecipano. In questi due mesi veronesi, con la partecipazione alle produzioni di “Anna Bolena” (Sir Hervey) e Salome (Il primo giudeo), abbiamo avuto il piacere di poterlo intervistare, per raccontare questo mondo immeritatamente trascurato, ma di grande fascino e di grande mestiere…

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Parliamo innanzitutto del tuo ruolo in questa Salome veronese: il primo dei cinque giudei…
Non è un ruolo così facile, anzi direi addirittura che è un po’ ostico, perché è scritto tutto sul “passaggio”, una tessitura impervia, come poi quasi tutte le vocalità di Strauss. Per essere una figura marginale ha una sua complessità. Secondo me non è poi così marginale, anzi dal punto di vista musicale apre il quintetto e quindi necessità di una grande precisione e di grande aplomb. Se si sbaglia qualcosa, è come in un castello di carte, crolla tutto. L’orchestrazione è poi molto ampia, massiccia, compatta, con una imponente sezione di ottoni, e quindi è importante passare l’orchestra. Lo è sempre, ma in questo caso di più, ed è difficile farlo nella zona del passaggio. Sono molto contento di questo ruolo e di essere tornato a Verona, finalmente, dopo ben sette anni di assenza (dal “Falstaff” del 2011). In questi anni ho preso parte a trenta produzioni alla Scala, e a importanti allestimenti all’estero, con impegni internazionali veramente di rilievo. Ricordo il lavoro fatto a Zurigo, Parigi e Salisburgo, con la grandissima Cecilia Bartoli e John Osborn, nell’Otello di Rossini, nello spettacolo di Moshe Leiser e Patrice Caurier, il cui DVD realizzato dalla Decca è già in commercio da qualche anno. Il Doge dell’Otello rossiniano mi ha portato alla Scala, in una bella produzione, con grandi cantanti come Juan Diego Florez e Gregory Kunde, e poi a Napoli per l’inaugurazione della scorsa stagione del San Carlo, sempre con Osborn. Essendo veneto ormai mi identifico molto nel Doge. whatsapp-image-2018-05-24-at-01-19-27.jpegNel 2011 mi piace ricordare la mia avventura americana alla Carnegie Hall, per un’edizione di “Adriana Lecouvreur”, nel ruolo dell’Abate, con un cast stellare composto da Angela Gheorghiu, Anita Rachvelishvili, Jonas Kaufmann e l’unico italiano insieme a me del cast, Ambrogio Maestri. Sempre a New York, alla Avery Fisher Hall, ho interpretato l’Incredibile in “Andrea Chénier” accanto a Roberto Alagna, Kristin Lewis e George Petean. Devo ringraziare anche il Maestro Alberto Veronesi, che è stato l’artefice di tutto ciò. Con Veronesi ho collaborato tanto anche a Torre del Lago, dove da quasi quindici anni mi esibisco, da Pang in “Turandot” a Goro in “Madama Butterfly”.   Questo mi ha sempre dato una grande gioia e la voglia di continuare in questo cammino, che come tutti ben sanno, non è sempre facile. In un mondo in continua evoluzione, io continuo per la mia strada e mi sento ancora un ragazzino, nonostante il capello sia bianco.  Devo dire però, con rammarico, che mi manca l’Arena di Verona, ed è un vuoto che vorrei colmare presto.

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©Brescia-Amisano/Teatro alla Scala

Parliamo un po’ delle tue partecipazioni scaligere…
Mi ritengo molto fortunato, perché ho potuto prendere parte a bellissimi spettacoli, accanto ad artisti di grandissimo livello. Tra le varie produzioni, vorrei ricordare i debutti con il Maestro Muti, “La Traviata” e “Le nozze di Figaro”, che ho poi cantato anche nel 2006 accanto a Diana Damrau e Ildebrando D’Arcangelo. Ricordo anche la straordinaria produzione di Peter Stein di “Tat’jana” di Azio Corghi, dove ho toccato apici tangibili di quello che è veramente il teatro. Lavorare con il Maestro Stein è stata un’esperienza straordinaria, cinquanta giorni di prove meravigliose, con tante emozioni e tanto lavoro.

Se tu dovessi scegliere, quale sarebbe il regista con cui vorresti lavorare nuovamente?
Fortunatamente ci sono anche dei giovani registi davvero molto bravi, penso allo straordinario Damiano Michieletto con il quale ho già avuto modo di lavorare al Theater an der Wien, nell’Otello rossiniano, e al Teatro dell’Opera di Roma ne Il Trittico di Puccini. whatsapp-image-2018-05-24-at-01-22-41.jpegForse quelli che con me hanno lavorato a fondo nei dettagli, in modo davvero sorprendente, sono stati Moshe Leiser e Patrice Caurier, due registi che lavora in tandem, con i quali ho fatto sempre “Otello” di Rossini. Lo spettacolo è nato a Zurigo, ma anche quando lo abbiamo ripreso a Parigi e a Salisburgo, sono stati molto attenti a riprendere lo spettacolo, aggiungendo dettagli e “limando” le imperfezioni. Abbiamo fatto una ricerca notevole sulla “vecchiezza” del Doge. E’ vero che è un uomo anziano, ma deve essere vecchio soprattutto nell’anima. Aggiungo ancora una volta Peter Stein che mi ha dato un “imprinting” e con il quale abbiamo fatto un lavoro davvero specifico sul personaggio. In quell’occasione io interpretavo uno studente e lui ci portò addirittura in una chiesa ortodossa, per farci vedere come avveniva il rito del matrimonio. Fu un lavoro che mi segnò davvero molto. Ho lavorato anche con canti altri: Maurizio Scaparro, Lamberto Pulgelli, Franco Zeffirelli….davvero con tanti. Un grande carico di esperienze.

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©Rocco Casaluci/Teatro Comunale Bologna

E invece un direttore che hai amato particolarmente?
Anche qui ci sarebbero tantissimi nomi da fare. Nel 2000 ho avuto l’emozione di essere diretto dal Maestro Muti, che mi scelse per Don Curzio ne “Le nozze di Figaro” e ricordo che ad un certo punto interruppe la prova e disse: ”finalmente abbiamo uno che balbetta come si deve!”. Tante emozioni, tanti aneddoti, che mi hanno fatto capire che questo era il mio mestiere.

Com’è nato il tuo amore per il canto?
Come cantante nasco per le prime parti. Dal 1994/1995 fino al 2001 ho cantato le prime parti: per esempio ho un ricordo indelebile del mio primo contatto con il Maestro Muti e con la Scala, che fu per fare la copertura di Juan Diego Florez nell’Armida di Gluck. Venivo dalle fila del coro del Teatro La Fenice e sapevo bene quanta fatica e quanti sacrifici avevo fatto per poter iniziare questa carriera, lasciando un terreno sicuro. Lasciai il coro e portato avanti da molte occasioni. Penso al Maestro Renato Palumbo che mi chiamò per fare il Conte di Almaviva ne “Il barbiere di Siviglia” a Bonn, poi in Portogallo. Ricordo “Don Pasquale” a Messina con il grande Enzo Dara e il Maestro Fabrizio Maria Carminati, le regie di Lorenzo Mariani. Forse fu lo stesso Mariani che dettò questa svolta nella mia carriera, perché lui parlava spesso di me come “un attore che canta”, intuendo le possibilità di espressione che avevo. Per varie vicissitudini ho cominciato dunque a fare il comprimariato, dal 2001/2002 circa. whatsapp-image-2018-05-24-at-01-22-27.jpegLa voce è rimasta intatta come allora, anzi oggi forse è ancora più brunita, da tenore lirico. Quello che voglio sottolineare è come il comprimariato non sia un ripiego, ma ci vuole una vera professionalità per affrontare questi ruoli, una preparazione seria e una specializzazione. Non sempre i giovani a cui vengono affidate queste parti sono all’altezza, perché ci vuole veramente una specifica dote. Nelle accademie di canto si preparano gli studenti ad affrontare le prime parti, ma bisognerebbe anche fare delle classi specializzate nell’insegnare ai ragazzi l’arte di affrontare i ruoli di fianco, così fondamentali nella struttura di un’opera.

WhatsApp Image 2018-05-24 at 01.19.35Ritornando però alle origini…
Diciamo che fin da bambino erano dettate le sorti, perché già a nove, dieci anni ero l’enfant prodige del mio paese, cantavo sempre in chiesa. Ho avuto la fortuna di studiare dai Salesiani, dove conobbi il primo compositore italiano di musica sacra, Natale Balosco, che mi aveva preso sotto la sua aula, e con lui nel 1976 feci un’apparizione in TV. Dai Salesiani ho avuto modo di studiare canto e di fare teatro. Mi sono poi diplomato in ragioneria, ma parallelamente mi sono diplomato in canto a Venezia. Avevo bisogno di lavorare e entrai nel coro della Fenice, del quale ho un bel ricordo, ma soffrivo un pochino perché volevo fare di più. Nel 1995 fui uno dei finalisti del Concorso Pavarotti. Avevo capito che potevo fare delle bellissime cose, viste le occasioni che mi si presentavano. Ricordo per esempio la chiamata di Salvatore Accardo per fare “L’occasione fa il ladro” di Rossini con la Chamber Orchestra di Londra. Grazie a Dio ho sempre avuto una grande facilità nell’adattarmi a stili diversi e un ecletticismo naturale. Ho sempre affrontato un repertorio molto ampio e “nuovo”: Nino Rota, Benjamin Britten, Azio Corghi, Sylvano Bussotti. Ho sempre avuto un’ottima padronanza musicale. In un’altra vita forse farei il direttore d’orchestra, perché la musicalità che Dio mi ha donato forse avrei potuto sfruttare in altro modo!

WhatsApp Image 2018-05-24 at 01.20.55Con un repertorio così ampio come si fa a trovare l’esatta definizione stilistica di un ruolo?
L’essere camaleontico è una dote che fa parte del mio DNA. Passare da “Anna Bolena” che ho appena affrontato qui a Verona e ritornare sullo stesso palcoscenico con un’opera diversissima come “Salome” è davvero una sfida. I risultati però sono ottimi, considerando anche gli apprezzamenti delle maestranze del teatro. Ho la capacità di potermi immedesimare nello stile di Sir Hervey nella Bolena e poi nel primo giudeo dell’opera di Strauss, un ruolo completamente diverso, quasi isterico. Spero che la mia voce sappia prendere il colore giusto per adattarsi al diverso stile. E’ il colore che deve cambiare, devono cambiare le sfumature, per poter creare la caratterizzazione del personaggio. Non ho mai avuto questa difficoltà e sono sempre in grado di assorbire lo spirito dell’opera. E’ una grande fortuna. Posso essere “Arlecchino” o posso assumere la dimensione di sacralità che deve avere Sir Hervey o il Doge dell’Otello di Rossini. Ho questo aspetto dualistico che mi permette di giocare con i personaggi.

WhatsApp Image 2018-05-24 at 01.19.41C’è un personaggio che più di un altro ti dona maggiori soddisfazioni o che magari ti diverti a caratterizzare sempre in maniera diversa?
Uno dei ruoli che mi diverte è Pang, uno dei tre ministri/maschere di “Turandot”, perché ha una scrittura complessa, come un “carillon”, in cui tutto l’ingranaggio dev’essere perfetto. E’ una gioia cantarlo appunto per questa struttura così articolata e poi giocata sulla parola. Devi essere un “Arlecchino”, d’altronde sono le maschere di Gozzi. Mi ha dato sempre una soddisfazione particolare. Questi personaggi sono le colonne portanti dell’opera e senza di loro l’opera in qualche modo si affossa. Devo dire che quando si trova l’esatta quadratura del cerchio e una sintonia tra le tre maschere, diventa difficile per gli altri interpreti. Ci sono delle serate dove ottengono più successo Ping, Pong e Pang rispetto ai ruoli principali. C’è tutto nella loro parte: la nostalgia, l’ironia, la crudeltà e il sadismo. Sono davvero uno specchio dell’umano. Un altro ruolo che ha una sua specificità è il Goro di “Madama Butterfly”, che richiede anche una particolare verve scenica.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

L’Incredibile di “Andrea Chénier” o l’Abate di “Adriana Lecouvreur” sono altri due personaggi molto interessanti e con un loro spazio. Ho interpretato anche il reverendo Horace Adams nell’opera di Britten “Peter Grimes”, dove questo pretino gozzoviglia a destra e a manca cantando con ilarità. Nell’ultima produzione di Peter Grimes che ho fatto, a Napoli, con il compianto Jeffrey Tate, io ero l’unico italiano e il Maestro mi disse: “Il tuo inglese va bene, ma è molto scottish”. Per un veneziano come me era già una grande soddisfazione (ride)…

C’è qualche collega tra i tanti che ti sono passati accanto che hai ammirato?
Mi sono ispirato e mi ispiro allo straordinario Leo Nucci. In vecchiaia vorrei essere come lui o avere vicino una persona così. E’ un uomo a cui rivolgeresti persino delle preghiere, perché è talmente gioioso, vivace. In lui si vede il piacere della vita. Ho fatto con lui “Rigoletto” alla Scala e poi con le maestranze scaligere lo abbiamo portato a Tokyo, per poi farlo anche a Palermo. Lo vedo come un grande maestro e nella sua persona mi rivedo in qualche modo, ovviamente non nella sua straordinaria arte vocale. Bisogna imparare dal suo modo di vivere, dalla sua acutezza, dalla sua sapienza. E’ una persona che mi ha colpito molto. A questo si aggiunga la sua conoscenza del repertorio, della musica, e il modo in cui trasmette il suo sapere, con sobrietà, con una semplicità che ti abbaglia. Un uomo sapiente con una grande luce.

Grazie a Nicola Pamio e In bocca al lupo!

Francesco Lodola

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