
Consensi unanimi e calorosi nella sala del Bibiena per la pomeridiana domenicale dell’impegnativo titolo verdiano che ha visto affiancarsi alcuni tra i migliori interpreti del momento sulla scena internazionale su una regia non propriamente all’altezza.
Erano ben vent’anni che al Teatro Comunale di Bologna non si assisteva ad un “Don Carlo”, opera sicuramente complessa da realizzare ma non per questo meno meritevole di essere rappresentata. Un vero e proprio monumento della grande produzione del Cigno di Busseto che nei suoi intrecci tra politica, religione e rapporti umani e famigliari richiede indubbiamente una attinenza nell’impostazione scenica e registica per quanto concerne la collocazione temporale delle vicende. In casi come questi si tratta, opinione di chi scrive, di parte irrinunciabile dell’identità di quest’opera al pari di una certa imponenza e cupa soggezione nelle atmosfere.
Nulla di tutto ciò in un allestimento che sotto questi punti di vista ha decisamente deluso le aspettative. Innanzitutto non si comprende in che epoca Henning Brockhaus abbia voluto ambientare il tutto dato che per quanto riguarda per esempio i costumi (di Giancarlo Colis) si passa da moderni e anonimi smoking a costumi di stile chiaramente più “antico”, Eboli ricorda una affascinante Marilyn, la Regina ha un che di circense, Filippo II una divisa austro-ungarica e nel coro si mescola di tutto e di più, compresi poco chiari richiami orientali.

Non sembra inoltre esserci (o se c’è non è facilmente intuibile) una visione generale, un’idea complessiva di regia e di quale sia lo sguardo sotto cui viene inquadrata l’opera. Anche nei movimenti e nel lavoro sui personaggi tutto sembra lasciato un po’ al caso, all’inventiva e alla libertà dei singoli intepreti, con conseguenti prevedibili squilibri nella resa finale. Le poche “trovate” registiche si limitano alla presenza di alcuni personaggi in momenti e luoghi in cui non si dovrebbero trovare con rimandi non sempre azzecatissimi. La lunga scena dell’autodafé perde del tutto la propria cifra distintiva, quella di essere una scena grandiosa e impressionante, in cui i contrasti tra le diverse vicende in atto nel medesimo momento, incalzate e sottolineate dalla musica, risultano qui per perdersi in maniera confusionaria. Non si respira minimamente il fatto di trovarsi nella sfarzosa e al tempo stesso austera corte spagnola del Cinquecento (e con questo non si intende dire che l’unica via sia eccedere negli ori e nei barocchismi scenografici.) anche ma non solo a causa delle scene di Nicola Rubertelli, funzionali ad uno spettacolo che come già detto non sembra avere un’idea chiara di fondo e quindi scarsamente in grado di contestualizzare e dare un valore aggiunto.

Di tutt’altro tenore la parte musicale, la nota più che vincente di questa produzione.
Michele Mariotti dirige l’Orchestra del Teatro Comunale con la comprovata maestria, sempre attento ad ogni sfumatura espressiva, agli equilibri tra buca e palcoscenico, con tempi che forse talvolta rallentano un po’ troppo (nella scena del velo e nell’autodafé in particolare) ma con una solidità tecnica e una padronanza dello spartito che ne confermano una professionalità e una capacità degni di ogni lode. Puntuale e precisa la prova del Coro, preparato dal Maestro Andrea Faidutti.
Per quanto concerne gli interpreti possiamo con schietta ed entusiasta convinzione affermare che ciò che si è potuto ascoltare è quanto di meglio il panorama lirico dei nostri giorni possa offrire per un’opera come questa.

Dmitry Beloselskiy è un Re Filippo II di grande statura (in tutti i sensi), dotato di una imponente voce, piena, potente, solida e ben emessa in ogni registro. L’interpretazione del personaggio è intima, morbida e appassionata ma al tempo stesso tragica, il fraseggio e la dizione chiari e precisi. “Ella giammai m’amò” è da manuale e gli applausi per lui sono giustamente numerosi e calorosi.
Roberto Aronica nei panni di Don Carlo si disimpegna in maniera soddisfacente. Qualche nota lievemente calante in principio passa in secondo piano quando si può godere di una tale generosità nel canto, cosi’ ben sostenuto da una tecnica sicura e proiettato in sala come una freccia pur con gusto.
Semplicemente commovente il Rodrigo di Luca Salsi. La voce è avvolgente, calda, pastosa, il fraseggio magistrale, sempre immerso nei dettami del vero recitar cantando verdiano, in una sequenza di nuances espressive, pennellate, colori che incantano. La celebre “Oh Carlo, ascolta” si dispiega in legati suggestivi e più in generale in un’interpretazione da vero artista, capace anche di slanci e impeto di grande rilievo.

Luiz-Ottavio Faria si disimpegna bene nel ruolo del Grande Inquisitore, pressoché perfetto Luca Tittoto come Frate, che si distingue per la caratura della voce e la splendida linea di canto.
Il “comparto” femminile non è da meno.
Maria José Siri è una Elisabetta non troppo esuberante e propensa al trasporto emotivo ma inappuntabile per musicalità, limpidezza di suono, controllo vocale e tenuta. Notevole nel finale l’acuto tenuto a lungo “a mo’ di Caballé”.
Veronica Simeoni è una Principessa Eboli giovanile e fresca. Non fa delle tinte più drammatiche e gravi il suo punto di forza (non lo è d’altronde, per il tipo di voce che le appartiene) ma si distingue per capacità interpretativa, cura del fraseggio, validità tecnica e il risultato è eccellente, grandioso nella famosa “O Don Fatale” che strappa unanimi consensi.

Ottima come Tebaldo la giovane Nina Solodvnikova, positive le prove di Massimiliano Brusco e Rosolino Claudio Cardile rispettivamente come Conte di Lerma e Araldo Reale.
Sicura e precisa Erika Tanaka, una voce dal cielo, bene anche i deputati fiamminghi, nell’ordine: Federico Benetti, Alex Martini, Luca Gallo, Paolo Marchini, Abraham Garcìa Gonzàlez, Carlo Malinverno.
In conclusione fervidi e lunghi applausi da parte del pubblico per tutti gli interpreti, con particolari ovazioni per Salsi e Mariotti.
Grigorij Filippo Calcagno
Bologna, 10 giugno 2018