L’intervista è sempre un momento di incontro, di riflessione, quasi una specie di “analisi”, ma ci sono delle interviste più speciali di altre, perché nell’interlocutore si nota fin da subito la passione, la voglia di raccontarsi, la voglia di condividere la propria esperienza e le proprie riflessioni. A ben vedere questa è la vera distinzione tra l’essere musicista e l’essere artista. Francesco Ivan Ciampa appartiene alla seconda categoria. Il giovane Maestro campano è uno dei direttori d’orchestra italiani più richiesti a livello internazionale e concertatore tra i più interessanti della sua generazione. Come le sue interpretazioni, anche quest’intervista, realizzata all’ombra dell’Arena di Verona, dove è impegnato in “Carmen” e “Turandot”, si contraddistingue per la sincerità e per l’amore profondo per l’arte…

Essere direttore d’orchestra è una decisione o una vocazione?
Ero piccolo e giocavo sotto il pianoforte a coda, mentre mio padre, che è direttore d’orchestra, suonava…era il mio luogo ideale. Lui aveva tantissime partiture, tantissime Miniature Scores, e io ero convinto che essendo piccole, fossero per me. Imitavo quello che faceva lui e giocavo. Per me è stato così naturale il sognare di diventare direttore d’orchestra, che è nato come un divertimento. Il giorno in cui ho proprio capito che volevo fare questo “mestiere” è stato quando, senza ascoltare nulla, ho preso una partitura e leggendola iniziai a sentire dentro di me i suoni e riconobbi il tema di “Così parlò Zarathustra” di Strauss. Da quel momento ho percepito la forza impressionante del contatto con una partitura, che fino ad oggi e sempre saranno sempre insieme a me. Ti svegli alle cinque del mattino e leggi una partitura e intorno a te non c’è niente, ma senti dentro di te il tuo suono ideale. Potremmo anche chiamarla vocazione, ma di sicuro non è una cosa che si ottiene solo con lo studio, che è tantissimo, infinito, “matto e disperatissimo” come direbbe il Leopardi. Ci dev’essere una fiamma, senza di quello è molto difficile. Non è impossibile: lo si può fare in maniera corretta e pulita, tecnica, ma ci dev’essere anche qualcos’altro in questo lavoro, che poi io non l’ho mai considerato tale…

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Questo è un aspetto interessante…
Quando ti trovi davanti ad un quadro e lo osservi, il rapporto che hai con esso è diretto con chi l’ha creato. Se tu guardi un quadro di Leonardo, è come se tu l’avessi di fronte a te, vedi la sua mano che lo ha dipinto. Con la partitura c’è un elemento in più che è quello dell’esecutore e dell’interprete: quelle “notine” lì sopra non hanno assolutamente alcun significato, sono soltanto un segno grafico. Attraverso te che interpreti, il cantante che lo canta, o lo strumentista, quel segno prende vita, ma non potrà mai essere come il compositore l’ha esattamente concepita. Questa è una libertà assoluta, ma controllata per quello che riguarda lo stile e la forma, ma passa attraverso di te, il tuo vissuto. Per questo ancora oggi ascoltiamo la Sesta di Beethoven suonata da tantissime orchestre e diretta da tantissimi direttori e ogni volta è diversa. Siamo noi stessi che la facciamo vivere. In qualche modo anche con la poesia avviene la stessa cosa, ma è già molto diverso, perché la lettura passa attraverso di te, ma quello che leggi è il pensiero di qualcun altro. Nella musica bisogna realizzarlo e far vivere quella nota. Molto affascinante.

Nell’opera c’è tutto: la musica, la parola, la scena…
L’opera è il trionfo di tutte le arti. Molto spesso viene paragonata al cinema, ma c’è una piccola, ma sostanzia differenza. E’ vero, nel cinema ci sono tutte le arti, ma queste hanno tutte tempi diversi e separati. Nell’opera tutto accade contemporaneamente: il balletto, i movimenti registici, il cantante che interpreta, lo strumentista che suona, il direttore d’orchestra che guida…tutto accade nello stesso istante. Nel cinema c’è il montaggio, e spesso gli attori non sanno quale sarà il risultato finale, poiché è un lavoro “a fasi”. Quindi solo il regista ha contezza ed idea di cosa realmente si vedrà alla fine e di cosa lui vuole.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Raccontaci la tua decisione di dedicarti prevalentemente all’Opera, scelta non così scontata per un direttore…
Ricordo ancora la mia prima lezione di direzione d’orchestra: avevo diciassette anni e mi hanno messo davanti la partitura di “Caro nome”…..io vi giuro non capivo nulla, non riuscivo a comprendere la cantante, non avevo idea di cosa fosse seguire la voce, anzi avevo quasi un rifiuto. Io sono nato dalla musica sinfonica e il mio amore è nato per la musica “pura” e “assoluta”. La voce è l’elemento originario di tutto, gli strumenti musicali sono nati in “imitazione” della voce e quando ho scoperto la meraviglia e la grandezza della voce è stato straordinario. Percepirne le vibrazioni, gli armonici, il colore, il timbro….è diventato un amore smisurato. Gli studi partono dalle grandi sinfonie di Brahms e Beethoven, e mentre ascolti questa musica sei totalmente libero e puoi costruirti davvero un viaggio mentale tutto tuo. Nell’opera racconti una storia e questo fil rouge lo devi ogni volta ricreare. Questa sembra una limitazione, ma quando capisci la forza della parola e il modo in cui realizzarla, diventa una cosa unica.

La tua formazione è stata segnata da grandi incontri, uno per tutti, Carlo Maria Giulini…
Ho avuto la fortuna di formarmi all’Accademia chigiana di Siena, dove ho avuto questo incontro tra i più belli e indimenticabili di tutta la mia vita. Un uomo dell’Ottocento: le movenze, il modo di parlare, di relazionarsi, la gentilezza, la classe. Mi ricordo che parlavamo delle Sinfonie di Brahms e mi colpì molto il suo amore per la musica. Mi ricordo una frase, che poi lui ha ripetuto anche in molte interviste:” la musica è un semplice atto d’amore. Prova a trovare e cerca in tutto il percorso dell’arte una musica che ti trasmette odio. Non esiste”. Anche se tu senti il Credo di Jago, anch’esso non è odio. In musica non esiste nulla che parli di odio. Un grandissimo uomo. Fu un’emozione incredibile incontrarlo. Mi feci autografare la partitura delle Quattro Sinfonie di Brahms e lui mi scrisse:” Ti auguro prima di tutto di essere un grande uomo e poi un grande musicista”. Questo fa capire quanto grande era lui, perché questa è la verità: non si può fingere….devi essere prima di tutto un’anima. Questa è la difficoltà della musica e anche dell’essere direttori d’orchestra. Non basta conoscere quello che c’è scritto in partitura, bisogna conoscere la vita. Siamo delle cartine tornasole. Devi essere sensibile da tanti punti di vista, non solo quello musicale: per esempio devi percepire il pubblico, che ogni sera è diverso. E’ come essere traghettatori…dei Caronte!

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Giulini fu direttore sinfonico e più sporadicamente impegnato nel repertorio operistico…Cosa ammiri di quella generazione di Maestri?
Certamente ha diretto meno Opera nella sua carriera, ma i risultati erano straordinari, penso a Falstaff o ai titoli mozartiani. Sicuramente era un altro periodo storico. C’era più tempo per capire le cose: tutto è molto più rapido e i tempi sono tutti velocizzati. Spesso questo comporta la perdita del gusto nel fare le cose. E’ proprio l’attenzione della società ad essere diversa, per questo secondo me l’opera ha difficoltà. Se vuoi veramente godere di uno spettacolo d’opera, o di un concerto sinfonico o strumentale, devi fermarti per almeno tre ore, essere concentrato per poterne godere appieno. Questi concerti con musica fortissima, che fanno, hanno un grandissimo successo perché vanno a colpire quell’istinto primordiale dell’uomo. Il ritmo violento, incessante, colpisce, perché fa parte del nostro primitivo. Quando vai a sentire una recita d’opera, c’è assolutamente bisogno di tempo e di concentrazione e oggi è davvero difficile averla. Bisognerebbe tornare tutti a respirare insieme, a ritrovare il nostro “umano”. Lo abbiamo perso, siamo diventati automi. Camminiamo tutti per fare qualcosa, rarissimamente camminiamo per godere solo del camminare. Pensa a queste strade di Verona: quante volte ci sono passato e ogni giorno vedo qualcosa di diverso. Ci vuole una sensibilità per questo, ma alla fine non ci vuole tanto. Bisogna rimparare a vivere e la musica l’arte sono le cose che secondo me, servono a questo fine. Bisognerebbe investire nella cultura proprio per questo motivo, per ritrovare noi stessi. Fino a quando non lo capiamo, ci sarà sempre più buio….ci parleremo sempre meno…

Lo si vede anche a teatro, dove gran parte del pubblico guarda lo spettacolo attraverso lo schermo del proprio smartphone…
Io capisco che, come una coppia che riprende la recita del proprio figlio, si vuole conservare un ricordo di quel momento, ma quale sarà il vero ricordo che ti porterai dentro? Ricorderai te stesso che riprendi con il telefonino, e ti annullerà il ricordo concreto. Il famoso fotografo, Henri Cartier-Bresson, diceva che le sue fotografie più belle erano quelle che non aveva mai scattato. Stai anche ore ad aspettare la luce giusta, sul panorama più bello del mondo, cercando l’attimo e poi non scatti. Solo in quel modo te lo ricorderai. La magia dello spettacolo dal vivo è quella proprio di averlo lì, davanti ai propri occhi.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Come nasce dalle tue riflessioni, l’interpretazione di una partitura, qual è il percorso nell’approccio ad un nuovo titolo?
Apro la partitura e inizio a “colorarla”, a scrivere pensieri. Parto inizialmente dal libretto, facendo una cosa che raramente si fa: leggo il libretto a parte rispetto alla musica. Il testo contiene moltissime cose che non ci sono nel testo musicale e viceversa. Leggendo il testo si viene a possedere il senso delle frasi musicali che il compositore costruisce, su ritmi e linee differenziate rispetto al testo poetico. E’ fondamentale. Molto spesso si va ad orecchio, soprattutto nelle opere di repertorio, dove certe cose si fanno in un modo, perché si sono sempre fatte così. La cosa importante per quanto mi riguarda è diffidare dai punti esclamativi, anche nella vita. Chi è convinto delle proprie cose, non ha sicuramente capito nulla. E’ importante sempre porsi dei punti interrogativi, mettersi in discussione: questo è il modo giusto per crescere. Mi devo chiedere la ragione per la quale la sto facendo musicalmente una determinata cosa, e perché magari sto seguendo la tradizione. Devo dargli un significato. Bisogna scegliere. Carlos Kleiber diceva: “posso dirigere l’attacco della Quinta di Beethoven in 50 modi diversi, tutti giustificabilissimi e coerenti, e che mi piacciono, ma la grande difficoltà è sceglierne uno”. Quando sei davanti all’orchestra hai una sola possibilità e devi giocartela. Questo viene dallo studio: parti da un suono, da una parola e metti in discussione la modalità di eseguirle. Penso ad una frase del Nabucco:” I candidi veli, fanciulle squarciate”. A parer mio, non puoi cantare questa frase, senza pensare alla forza del suono della parola, tutte queste consonanti. Da quei suoni, viene il suggerimento di come dev’essere cantato. Spesso si fa troppa poca attenzione a questi dettagli. Bisogna farsi delle domande su ogni minima parola, e su ogni minima nota. E’ un lavoro infinito, che dura anche durante le recite. Spesso anche un segno di interpunzione, cambia veramente tutto. Ogni volta devi rileggere tutto e nel caso cambiare tutto. E’ difficile in opere come Traviata, Nabucco, Carmen che sono forse abusate, però devi sempre riportare alla “verginità” quella che è la lettura. Solo così si può fare sempre qualcosa di nuovo. Senza avere la paura di rischiare. Capita che magari, dopo sei mesi, nei quali sei convinto che quella battuta debba essere fatta in quel modo, che arrivi alle prove e ti accorgi che non funziona. Devi avere il coraggio di buttare al vento sei mesi di lavoro e di istinto risolvere il problema, facendo anche l’esatto contrario rispetto a ciò di cui eri convinto. Non si può dire: Si fa così!”. E’ sempre una questione di punti esclamativi.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Parliamo un po’ di questo debutto nella “Carmen” nell’inaugurazione dell’Arena Opera Festival 2018….Come hai strutturato lo studio di quest’opera?
Due anni fa ero a Madrid e avevo il desiderio di vedere una corrida, e degli amici spagnoli, mi portarono a vederla. Uno spettacolo di una violenza inaudita. Prima di entrare io mi dissi, che se avessi mai dovuto dirigere “Carmen”, avrei voluto, vedere assolutamente prima una corrida. Quindi volevo che mi spiegassero tutto quello che accade. In quel periodo stavo facendo un concerto con Diana Damrau, ma posso dire che “Carmen” è nata in quel momento nella mia immaginazione. Mi hanno spiegato il rituale straordinario della corrida. Successivamente ho letto “Morte nel pomeriggio” di Ernest Hemingway, che era un grande appassionato di corride e una frase mi ha colpito, e che ho riportato in partitura:” la corrida non è uno spettacolo, è una tragedia”. Alla fine della corrida, uno dei due morirà e non si sta fingendo. Partendo da questo presupposto e osservi Carmen dal duetto finale, capisci la metafora. Il rapporto tra Carmen e Don José è come quello del toro con il torero. Ho studiato tutta l’iconografia della tauromachia, ma anche alcuni quadri di Picasso. E’  arrivata l’occasione di questa inaugurazione e ovviamente è stata una grande gioia. E’ un sogno che si ha fin da bambino e che si realizza: l’Arena di Verona. Ci si ritrova lì dentro, con quel pubblico immenso. Una grande emozione da gestire, perché devi “guidare” tu e non ti devi far “mangiare”. Lo studio di un’opera non è legato, per me, esclusivamente alla musica, ma ho bisogno di attingere da tutto quello che ho a disposizione. Ho letto nella storia di Carmen, i colori di Siviglia. Questa è un ‘opera, dove a differenza di altre, c’è molta sinestesia. Il profumo in Carmen è molto importante: non solo per il fiore, o per il fumo delle sigaraie, ma è proprio una sensazione che si deve avvertire. L’esplosione iniziale, questi piatti che sono gioia pura, ma che contengono tanto dentro di quello che verrà raccontato. Bisogna realizzare anche che non è un’opera verista, ma realista secondo me e c’è una grandissima differenza tra i due concetti. Devi trovare i caratteri della genialità di Bizet, che vengono anticipati, e che non devono essere snaturati nel “discorso musicale”. E’ un percorso di studio lunghissimo, infinito, perché ci sono infinite cose da mettere a punto, anche solo un breve frammento: penso all’inizio della Seguedille. Un’altra cosa importante è avere Carmen, che è una protagonista imprescindibile, come Rigoletto, ed è difficilissimo. Non è una prostituta, deve avere una sensualità che viene trasmessa dalla sola movenza e questo comunque non basta. Non soddisfa mai, ci sarà sempre qualcosa che non va. E’ un’opera talmente piena di significati e di concetti che non può essere diversamente. Penso all’idea di Carmen della libertà. Libera è nata e libera morirà, questo è il concetto che ritorna per tutta l’opera. Poi c’è l’aspetto dionisiaco della Chanson Bohème, che inizia con un’atmosfera assonnata, per poi scatenarsi in ebbrezza totale, un’orgia musicale senza confine. Carmen è questa: passare da un estremo all’altro. Il vero equilibrio in Carmen è paragonabile a quello di una leva: non è nel centro, ma saltellando sui due estremi. Lei vive tutto al massimo, per questo è difficile. Bisogna viverla, non basta cantarla e interpretarla. Un altro punto importante in Carmen, ma in tutte le opere, è che non bisogna mai dare la sensazione che la frase successiva rispetto a quella che stiamo cantando, già la conosciamo. Questa è la cosa più difficile dell’essere un’artista: saper dividere la dimensione del tempo reale che stai vivendo, quella di dove il tempo tende e la dimensione di quello che è stato. E’ come vivere un’altra vita. Però come mentre facciamo quest’intervista, io non so cosa ti dirò nei prossimi secondi, così dovrebbe essere idealmente nell’opera. Non si deve percepire il percorso che il dialogo farà, devi pensare alla parola come se la stessi inventando in quel momento, con totale spontaneità E’ la cosa più difficile di tutte, però quando accade nasce la magia. I grandi riescono a fare questa cosa. Ritorniamo al fatto che è necessario mettere sempre in discussione tutto, magari sbagliando anche. Se ti approcci con amore e con rispetto, anche la più grande follia sarà giusta, perché la stai facendo credendoci fino in fondo, perché stai mettendo tutto te stesso, con onestà intellettuale, qualità che oggi scarseggia.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Quest’anno ricorrono i 50 anni dalla scomparsa di Tullio Serafin…Quali sono state le emozioni di salire sul podio areniano, dove il maestro salì nel 1913 per inaugurare il primo festival areniano?
Serafin è il mito. I maestri di quella generazione sono stati per me i più grandi di tutti. Se pensiamo ai cantanti che ancora oggi sono idoli per il pubblico, prima tra tutti Maria Callas, sono diventati tali, grazie al lavoro di Serafin, Votto, Giulini e tanti altri. Questi grandi maestri che sapevano guidarli e dare loro i giusti suggerimenti. Oggi ognuno porta la sua esperienza: chi ha cantato un’opera al Covent Garden, chi a New York e ciascuno arriva con la convinzione di semplicemente riprendere quello che è stato già fatto. Invece bisogna ricreare l’opera da capo, rispettando il diverso contesto. Questo facevano i grandi maestri, che non si accontentavano mai. Adoro ascoltare gli aneddoti che mi raccontano i musicisti che hanno suonato con questi miti, per esempio quello che dicevano i grandi maestri del coro di una volta: “bisogna continuare sempre a cantare con gli occhi”. Questo me l’hanno detto durante le prove di un  “Simon Boccanegra” con Nucci. E’ assolutamente giusto, perché il suono non finisce quando finisce la voce, ma si conclude quando tu vuoi. Quando fai una pausa, la devi rendere musica, creando una tensione interiore, un’energia che continua. I grandi maestri ci hanno insegnato queste cose. Lo dimostra la loro assoluta modernità ancora oggi. Pensiamo alle incisione straordinarie che ci hanno lasciato. Ascolto le cose di oggi per piacere e per capire le voci che ci sono, ma per comprendere davvero le cose, bisogna ascoltare i grandi del passato. La Tosca di De Sabata per esempio, è un capolavoro inestimabile. Pochi lo sanno ma dopo il mio nome Francesco Ivan, mio padre ha inserito Victor in omaggio a De Sabata e William per Shakespeare…Mi sento un uomo fortunato, perché nella mia famiglia si è sempre respirato arte e musica: oltre a mio padre direttore d’orchestra, mia mamma è un’insegnante di storia dell’arte e mia sorella è una cantante. E’ stata una grande fortuna, che mi piacerebbe molto trasmettere agli altri. Nel mio piccolo, a Benevento, ho creato un’Orchestra Filarmonica formata da giovani, che è già stata diretta da Antonio Pappano, che è rimasto entusiasta e tornerà presto a dirigerla. Sono venuti anche altri grandi direttori, come Daniel Oren, e tutti ne rimangono innamorati.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Il Maestro Riccardo Muti ha recentemente dichiarato in un’intervista che ci vorrebbero più orchestre e più teatri…
Non è assolutamente facile, questo lo posso assicurare: non ci sono fondi, e mettere insieme più di 80 ragazzi non è una cosa semplice, costa sicuramente dei sacrifici. All’inizio ho faticato molto, ora invece sono diventati loro stessi più indipendenti e autonomi, anche nel muoversi nelle dinamiche orchestrali. La cosa più bella che io provo, è che se io mi dedicassi solamente alla mia carriera, non mi sembrerebbe di aver fatto il mio mestiere in maniera completa, invece in questo modo, sento di aver creato qualcosa. Non bisogna avere paura e bisogna dare fiducia ai giovani. Spesso con loro si possono fare delle cose, che con i professionisti sono impossibili da realizzare, perché certi meccanismi in loro sono automatici. Con i ragazzi devi spiegare le cose e quando ti restituiscono la loro energia, tu ti senti arricchito. Bisogna essere generosi, solo in questo modo si diventa più ricchi. Sembrano cose scontate, ma secondo me bisogna tornare indietro, alla semplicità, una semplicità profonda, non superficiale…Bisogna andare all’essenza, essere sinceri, non fingere…

Ricordiamo i tuoi prossimi impegni dopo “Carmen” e “Turandot” all’Arena…
L’impegno più grande è quello di studiare sempre, perché ho tanti debutti…quasi ogni opera lo è, visto che sono in carriera solo da cinque anni praticamente. E’ una grande gioia poter riprendere un’opera già fatta, non perché sia più facile, ma perché è bellissimo poterla riguardare, con un occhio diverso, arricchito da quello che ho affrontato nel frattempo. So che se affronto oggi monumenti musicali come il Requiem di Verdi, quando lo dirigerò a sessant’anni, avrò avuto già dentro di me il germoglio. Se invece lo affrontassi per la prima volta a quell’età sarebbe completamente diverso, perché avrei diverse pressioni. La gioia è quella di fare e di conoscere il più possibile. Prossimamente inciderò a Berlino “Sigismondo” di Rossini, poi “La Forza del destino” a Piacenza, un altro capolavoro verdiano immenso, “Les pêcheurs de perles” a Bilbao, “Il Barbiere di Siviglia” alla Fenice di Venezia e poi tanti progetti…

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Se ti fosse data la possibilità di scegliere un titolo da dirigere prossimamente?
Non saprei rispondere perché ce ne sono tantissimi. Adoro Puccini e forse ti direi “La Fanciulla del West”, un’opera che si fa troppo poco. Farei anche tutto Verdi, di cui ho fatto tantissimi titoli, forse diciassette o diciotto, però mi mancano “Falstaff”, “Don Carlo”….titoli che vorrei fare moltissimo. Dei capolavori. Un uomo che si reinventa a novant’anni, e dopo aver composto una commedia giovanile “Un giorno di regno”, chiude la sua carriera con un sorriso. Un genio. Io li vedo come amici, perché devi viverli pensando al fatto che sono esistiti davvero. Mitizziamo talmente tanto queste figure, che non ci sembrano quasi che siano esistite. Penso a Mozart, un genio assoluto, che sembra una favola, che in soli trentatré anni di vita ha composto tutta quella straordinaria musica. Incredibile! Invece era un uomo fatto di carne.

E un’Aida all’Arena di Verona…
Assolutamente sì! Anche Aida è un grande capolavoro: ci sono delle frasi straordinarie, che spesso perdono il loro significato, perché non gli viene data la giusta importanza. Penso al finale della grande scena con il coro del primo atto, che finisce con tutta la corte che grida “Ritorna vincitor!”. Tra questo momento e l’attacco del recitativo di Aida, con “Ritorna vincitor” ci vuole una pausa, per far capire l’immenso strazio dell’anima di Aida nel pronunciare queste parole. Tutti lo cantano in una certa maniera, invece lei lo fa con una scala modulante: questo è il genio assoluto di Verdi. Sarebbe bello fare anche la versione con la Sinfonia di “Aida” al posto del preludio, che non si fa mai e che contiene tutti i temi dell’opera. Mi piacerebbe proporla in Arena, magari non nell’opera perché è eccessivamente lunga, ma magari in un concerto. Aida all’Arena è sempre magica! Il finale è una delle più grandi cose mai immaginate:” si schiude il ciel”….poesie pura.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Quali sarebbero i titoli, che non vengono eseguiti da anni, che ti piacerebbe proporre in Arena?
Sarebbe fantastico “Otello”, con un grande protagonista, una vera star, e ce n’è più di qualcuna, che sarebbe perfetta per l’Arena. Altri titoli che mi vengono in mente sono “Samson et Dalila”, “La Gioconda…titoli bellissima. Non toglierei mai “Aida” e Turandot, e di quest’ultima in particolare farei più recite, perché è un’opera che anche il neofita capisce e ama subito. Proporrei altri titoli pucciniani che sarebbero perfetti per l’Arena, come La Fanciulla del West. Spesso si discute sul fatto che il pubblico non accorrerebbe per queste opere. Bisogna farsi delle domande. Il primo fattore è quello di poter avere grandi cast a disposizione. Il secondo è che riempire l’Arena non è affatto semplice e c’è bisogno di un anno di tempo e di lavoro per poterlo fare. Verona si deve spostare nel mondo e presentare la propria stagione in questi paesi, assicurandoti già la partecipazione del pubblico di quei luoghi. Bisogna giocare d’anticipo e creare una diffusione reticolare del brand Arena di Verona nel mondo, invogliando il pubblico. In Arena tutte le proporzioni sono amplificate, l’orchestra, il coro, la scena, e quindi anche la pubblicità dev’essere ingigantita. Si sbaglia pensando che il pubblico non capisce, perché anche lo spettatore che non conosce nulla di opera, se si emoziona, vuol dire che l’obiettivo è stato centrato. Per catturare una persona devi essere onesto. Nella prima recita che ho fatto di “Turandot”, sono arrivato lì solo con una prova alle spalle, e in Arena non è cosa semplice: mi sono dovuto reinventare, cambiare cose che non mi piacevano, e anche nella recita successiva ho fatto la stessa cosa. Questo è quello che devi imparare a fare in Arena e anche nella vita: avere il coraggio di mettersi in discussione, per migliorare, cambiando totalmente le proprie scelte. Non ho paura a dirlo e farlo. Non tutti sono così, e molto spesso ci si abbandona alla propria esperienza del passato. Tanti dicono di essere gli umili servitori, le umili ancelle della musica, ma pochi hanno il coraggio di farlo davvero. Bisogna esserlo, senza timori. Il pubblico lo percepisce questo, lo sente se sei onesto.

Grazie al Maestro Francesco Ivan Ciampa e In bocca al lupo!

Francesco Lodola

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