Solo nominando Ferruccio Furlanetto viene in mente una galleria di personaggi e di interpretazioni davvero straordinarie. Una carriera costellata da grandi incontri come quello con Herbert von Karajan. Filippo II, Jacopo Fiesco, Don Quichotte, Figaro, Don Giovanni sono solo alcuni dei volti che Furlanetto, da grande cantante e da brillante attore, ha indossato nella sua gloriosa carriera. In questi giorni, dopo ben diciotto anni di assenza, è ritornato all’Arena di Verona, con il ruolo di Don Basilio ne “Il Barbiere di Siviglia” e pochi giorni prima della prima, abbiamo avuto il piacere e l’onore di intervistarlo.
Innanzitutto, com’è nato l’amore per il canto?
E’ nato quando ero davvero molto piccolo. Mi ricordo che quando avevo quattro, cinque anni, il mio bisnonno mi faceva cantare, e qualsiasi cosa io cantassi, sentivo una grande gioia. Ho ricevuto il dono della voce, una natura importante, e ho sempre trovato normale utilizzarla. Quando ero adolescente, era il più bel periodo della musica leggera, parliamo della seconda metà degli anni ’60. Sono arrivato in finale al Festival di Castrocaro, avevo un complesso, in cui ero la voce solista. A quell’epoca, in seguito a Castrocaro, ho fatto anche dei dischi con la CGD (Compagnia Generale del Disco, ora Warner). Mi piaceva cantare, ma non amavo l’ambiente della musica, dove girava anche la droga per esempio. Da buon ragazzo di campagna, ero sulla “difensiva”. Ho finito dunque il liceo classico e ho cominciato a studiare qualcosa che non c’entrava nulla con la musica, ossia scienze forestali a Padova, che non è altro che una branca finale delle scienze agrarie. In quel momento una sorella di mia madre, che aveva cantato professionalmente, mi ha incoraggiato a studiare canto lirico, ma l’opera era davvero lontana anni luce da quello che facevo allora. Ho deciso di provarci, avendo questa voce naturale, e andai dal famosissimo Maestro Ettore Campogalliani, a Mantova, e iniziai a studiare con lui. Era una bella fatica: prendevo il treno dal mio paese alle sei del mattino, arrivavo a Mantova alle nove, facevo la mia lezione, e alle undici tornavo in stazione per prendere il treno del ritorno. Dopo un anno, ho partecipato al Concorso Lirico di Lonigo e ho vinto il secondo premio, che prevedeva la partecipazione alla messinscena di “Rigoletto”, e ho avuto quindi la possibilità di debuttare in Sparafucile, con un ottimo cast. Da quel momento ho cominciato a fare audizioni. Feci un importante debutto al Teatro Verdi di Trieste, nel dicembre 1974, con quella che inizialmente doveva essere “Adriana Lecouvreur” con Montserrat Caballé e José Carreras, ma che a causa del mancato arrivo del soprano catalano, diventò “La Bohème”, un’opera che io non conoscevo per nulla. Ricordo che il Maestro Gabriele Pisani in sette ore, un mercoledì pomeriggio, mi fece imparare a memoria l’opera. Avevo cantato in qualche piccolo concerto l’aria di Colline (“Vecchia zimarra”), ma non avevo idea di tutti i dialoghi e i piccoli interventi.

Ho fatto tre, quattro anni di gavetta, fondamentali per un giovane cantante, avendo l’opportunità di crescere mentre si lavora, e poi ho fatto un altro concorso importante, quello di Treviso, dove vinsi il ruolo e il debutto in “Don Giovanni”. A quell’epoca era impensabile, affidare quel ruolo ad un giovane cantante, perché è e dovrebbe essere, un punto di arrivo, di maturità. Vennero ad ascoltarmi alcuni maestri e responsabili del Teatro Regio di Torino, che mi affidarono il ruolo mozartiano per la primavera successiva, nella bellissima produzione storica di Pier Luigi Pizzi. Nel 1979 ho debuttato alla Scala, nel famoso “Macbeth” diretto da Claudio Abbado, con la regia di Giorgio Strehler, ovviamente nelle repliche. L’anno successivo ci fu il debutto al Metropolitan, con Il Grande Inquisitore in “Don Carlo”, accanto a Renata Scotto e con la direzione di James Levine. Tutto fu molto naturale, anche facile se vogliamo. Il Metropolitan è di gran lunga il teatro dove ho cantato di più, e dove ritornerò anche a dicembre. Ho fatto tantissime prime lì, il mio debutto in “Simon Boccanegra, ne “I Vespri Siciliani”. In Europa forse avrei fatto più fatica. Nel 1983 c’è stata una grande svolta, quando feci un’audizione per il Maestro Von Karajan, che rimase entusiasta. Mi disse che era dispiaciuto perché nei tre anni successivi avrebbe fatto solo repertorio tedesco, ma che si sarebbe ricordato di me. Esattamente tre anni dopo, mi chiamò per la “Messa di Incoronazione” di Mozart in Vaticano, per il Papa, che fu un’esperienza strabiliante e il disco di “Don Giovanni” come Leporello. Io rimasi un po’ perplesso da questa sua richiesta, perché avevo cantato già molto spesso il ruolo del titolo, ma lo feci e come sempre lui ebbe ragione, perché questa incisione mi aprì moltissime porte. Quell’anno ero al Festival di Pasqua per il “Te Deum” di Bruckner e la Messa dell’Incoronazione” e facevo la copertura del ruolo di Filippo II in “Don Carlo”. La sera prima della generale io andai a dormire tranquillo, anche perché se ci fosse stata un’emergenza, ero sicuro che avrebbero chiamato un nome importante per sostituire il titolare della parte. Bisogna pensare che si trattava di una prima importantissima, in mondovisione. La mattina dopo invece, mi chiamarono e mi dissero di prepararmi e andare in teatro perché avrei dovuto sostenere la generale. Quel Filippo II, che avevo già cantato, fortunatamente, mi cambiò la vita in sole dodici ore. Il fatto di essere scelto da Karajan metteva in evidenza la presenza di un giovane basso, che ieri era solo una promessa, ma che da quel momento diventava una realtà. Nello stesso periodo conobbi Jean-Pierre Ponnelle, e con lui ho fatto il mio primo Figaro ne “Le nozze di Figaro”, “Don Giovanni” e ben due film, “Rigoletto” e “Così fan tutte” e tante altre cose. Ponnelle mi ha insegnato che avevo la possibilità di essere un “cantante-attore”. A tutto questo devo assolutamente aggiungere, che fin dal 1980 ho avuto un grandissimo agente, anzi meglio dire un impresario, come si diceva una volta, che era Michel Glotz, il quale è stato per trentacinque anni anche produttore discografico di Karajan. E’ stato uno dei più grandi protagonisti della musica degli ultima cinquant’anni, collaboratore anche di Sir Thomas Beecham. Michel come tutti gli agenti pensava al profitto, ma sapeva bene che un cantante produce molto di più nell’arco di quarant’anni, che non in cinque. Per cui lui indirizzava la carriera dei giovani, conoscendo perfettamente le loro qualità, in modo che durassero. E’ stato fondamentale, perché mi ha sempre consigliato su quello che era meglio affrontare subito e quello per cui invece si poteva aspettare ancora qualche anno. La mia crescita è stata naturale, facile e sana.

I ventisette anni di Mozart che io ho fatto dal 1983 al 2004, quando ho cantato per l’ultima volta Figaro e Don Giovanni, sono stati una medicina unica. Mozart ha scritto nella più grande naturalezza, senza cercare “coperture” di carattere. Devi essere te stesso. Quando ho deciso di smettere di cantare Mozart, non è stato per ragioni vocali, non c’era assolutamente alcun problema da quel punto di vista, ma perché i personaggi mozartiani sono tutti dei giovanotti, e non avevo più voglia di farlo. Quella che era la pura gioia di cantare ad esempio il quarto atto di Figaro, cominciava a diventare fatica fisica. Mi ricordo di aver visto al Metropolitan un mio illustre collega, di età già matura, che cantava Figaro e quando nel finale dovevano salire cinque scalini, lui li saliva da cinquantacinquenne, e mi sono detto che quando sarebbe arrivato quel momento avrei smesso di cantare quei ruoli e così è stato. Sono ritornato al repertorio dei grandi ruoli verdiani, il mio svisceratamente amato repertorio russo che è cominciato con il recital con Alexis Weissenberg di musiche di Mussorgsky e Rachmaninov e il primo “Boris Goudonov” e la grande fortuna di farlo con Piero Faggioni. Fare i primi ruoli importanti con grandi registi e grandi maestri, è veramente una fortuna incredibile. E’ come un marchio che ti proteggerà per il resto della vita, perché puoi cadere in produzioni di più basso livello, ma tu sai già come gestirti.

Oggi ci sono pochi concorsi che danno la possibilità di debuttare fin da subito un ruolo…quanto era importante per un giovane cantante?
Mi auguro per tutti miei colleghi giovani, che ci siano sempre possibilità di questo tipo. Ricevere il premio e una somma di denaro va bene, ma la possibilità di debuttare un ruolo importante, con un lungo periodo di prove, è davvero oro colato. Adesso anche i debuttanti arrivano a cantare ruoli importanti come Don Giovanni, mentre alla mia epoca era impensabile. Devi convincere che sei pronto per quel ruolo, che sei all’altezza. I concorsi dovrebbero avere questo tipo di formula, perché la coppa o i soldi non bastano. Ci vuole esperienza e opportunità, e queste arrivano soltanto in questo modo.

Quali sono i consigli che darebbe ad un giovane?
Io non credo che sarò mai insegnante, non è una cosa che è nelle mie corde. Certo, ad un giovane basso già in carriera, posso parlare della mia esperienza e condividerla, ma non direi mai ad un cantante diciamo “vergine” di fare in un certo modo o in un altro, perché si gioca con la vita di questi ragazzi. Il fatto di essere un cantante di buona carriera, non vuol dire essere un buon insegnante. Ho conosciuto davvero pochi cantanti che sono stati bravi insegnanti, Bonaldo Giaiotti era uno di questi. Ad un cantante giovane ma già in carriera, della mia corda, direi di fare più Mozart possibile nella fase centrale del proprio percorso e della propria vita, perché ti darà alla fine una freschezza, che non avresti se tu avessi cantato Verdi o repertorio pesante per tutta la vita. Onestamente, io mi ritrovo oggi, a sessantanove anni, a cantare con una facilità che non avevo vent’anni fa, e questo grazie a Mozart. L’altro consiglio che potrei dare è l’attenzione alla scelta del repertorio. Un cantante quando nasce come tale e incomincia a muoversi, ha tante ambizioni, anche di saltare delle tappe, ma è importante prendere il proprio tempo e soprattutto scegliere il repertorio in funzione della propria natura. Se sei nato naturalmente tenore rossiniano, dimentica i grandi ruoli verdiani, perché possono essere dannosi. In questi quarantaquattro anni di carriera che mi porto dietro, ho visto continuamente delle voci bellissime venire fuori, perché le voci ci sono, non come si dice spesso, ma cominciano subito a cantare qualsiasi cosa. L’intonazione delle orchestre è sempre più alta e quindi questi giovani nell’arco di tre, massimo cinque anni, sono tutti sotto i ferri, per problemi vocali irreversibili, perché non si torna mai indietro e non si torna neanche come prima. E’ una strage di belle vocalità assassinate da queste condizioni. Bisogna sperare e sapere di avere dietro di sé qualcuno che ti possa guidare, un agente che abbia responsabilità, che ti consigli di fare le cose per le quali sei nato, senza uscire dal seminato.

Nel 1982 debuttò all’Arena di Verona, nella prima ripresa “moderna” dell’Aida storica del 1913….quali sono i ricordi di quelle recite?
Fu un’esperienza straordinaria, perché non avevo mai cantato in un teatro così grande e con un pubblico così vasto. Una cosa non dimenticherò mai: una sera c’era il record di incasso e alle nove cominciò a piovigginare e annunciarono che il centro d’osservazione meteorologico, diceva che avrebbe smesso nel giro di poco tempo, e invece cominciammo la recita a mezzanotte e finimmo alle quattro del mattino. Oggi non succederebbe più, soprattutto per questioni sindacali, ma fu un’esperienza indimenticabile. Non c’è nulla che ti dia quel tipo di sensazione come quella dell’Arena: puoi fare dei concerti nei parchi, oppure come mi è capitato, “Don Giovanni” al Teatro Antico di Orange, o Aida alle Terme di Caracalla, l’Arena è unico. Anche ieri sera (durante la prova generale) mi sono reso conto di quanto sia facile cantarvi, con un ritorno che ti aiuta tantissimo. Un’esperienza unica. Ricordo anche la bellissima “Turandot” che feci nel 1983, con la regia di Montaldo e accanto a Cecilia Gasdia come Liù, e poi due edizioni di “Nabucco”, l’ultima volta quello di De Ana, nel 2000.
Il Barbiere di Siviglia e Don Basilio vedono finalmente il suo ritorno all’Arena…
Questo Barbiere mi offre finalmente la possibilità di tornare a cantare qui, e grazie anche a Cecilia Gasdia, che mi ha chiamato per fare parte di questo cast meraviglioso, accanto a Leo Nucci, Daniel Oren e tanti altri artisti di prim’ordine. E’ davvero bello e sono felicissimo. L’unica cosa è il caldo mortale che ci attanaglia! Dopo diciotto anni tornare qui è una gioia!

Questa occasione offre anche un ritorno a Rossini, in questo importante anniversario, dei 150 dalla morte del compositore…
Di Rossini ho sempre fatto con grande piacere “L’Italiana in Algeri”, solo però nella produzione di Ponnelle, perché mi dà gioia personale. Ho fatto Basilio in più occasioni, quando capitava, e Semiramide in quella bellissima e storica produzione di Pizzi, ma non sono mai stato un cultore dell’agilità. Il mio pane quotidiano è stato Mozart e il Figaro che ho amato così tanto, e dopo che ho chiuso con quello, mi sono dedicato sempre più a Filippo II, a Fiesco, tutti i grandi ruoli verdiani, il repertorio russo, e Don Quichotte, che è davvero il ruolo che è più vicino al mio cuore. Ho avuto ed ho la fortuna di farlo dappertutto, recentemente anche in Australia, dove l’opera non era mai stata fatta e ne abbiamo fatto alcune recite a Sidney e Melbourne. Il pubblico l’ha accolto con entusiasmo, ricevendo questo messaggio di bontà e di purezza, che di questi tempi fa davvero bene al cuore. E’ un’opera immediata, per questo arriva subito a conquistare il pubblico. L’umanità e lo spessore di questo personaggio sono straordinari. La morte di Don Quichotte è una di quelle poche cose, come il terzo atto di Filippo, o il finale di Boris, che un interprete prima di tutto interpreta per sé stesso, e se tu davvero lo fai per te, il pubblico lo riceve in una maniera eccezionale, perché ne coglie la genuinità, la sincerità. Questo è quello che fa diventare questa professione, che non ho mai considerato tale, un privilegio.

Tornando all’Arena…c’è uno di questi personaggi che le piacerebbe portare su quel palco?
Direi tutte…perché tutte si prestano. Don Quichotte è vero che è un’opera intima, ma ha una parte importante per il coro, e un’opera dove si può danzare molto, quindi potrebbe starci benissimo. Boris è un’opera di popolo. Un’altra opera che purtroppo si dà raramente e che io ho avuto la fortuna di fare, l’ultima volta nel 2009, è “Assassinio nella Cattedrale” di Ildebrando Pizzetti, un’opera straordinaria, che penso funzionerebbe benissimo. Lo dimostra l’efficacia de “Il Barbiere di Siviglia” qui all’Arena, perché nonostante tutti storcano il naso, funziona alla perfezione. In Arena se c’è cervello da parte di tutti, si può fare veramente tutto. Certo, Boris e Don Quichotte sarebbero davvero ideali. Penso alla produzione che ormai da sei anni facciamo al Mariinskij, con Valerij Gergiev, con la regia di Yannis Kokkos (regista anche dell’opera di Pizzetti alla Scala), che è geniale. Non c’è mai nulla di convenzionale, è tutto molto astratto, ma sempre nel più profondo rispetto della musica, dell’autore e delle necessità vocali. In un palcoscenico come quello areniano sarebbe perfetto.

Ricordiamo i prossimi impegni…
Subito dopo l’Arena, andrò a Los Angeles, dove farò, tanto per cambiare (ride), Filippo II in “Don Carlo”, accanto a Placido Domingo nel ruolo di Rodrigo, poi tornerò alla Wiener Staatsoper con il ruolo di Gremin in “Evgenij Onegin”, poi “Simon Boccanegra” al Covent Garden. Dopo di che ritornerò al Metropolitan con il ruolo di Arkël in “Pelléas et Mélisande” e tantissime altre cose, tra cui Boris in Russia. C’è in particolare un progetto a cui tengo moltissimo, che spero si realizzi, che è portare al Mariinskij, l’allestimento di Boris di Faggioni, che vide il mio debutto. Per Piero sarebbe veramente la coronazione di una carriera strepitosa e la rievocazione di un allestimento straordinario come il suo. Spero tanto che ci si riesca!
Grazie a Ferruccio Furlanetto e In bocca al lupo!
Francesco Lodola