Nel 1913 Tullio Serafin fu uno dei più grandi promotori della nascita del Festival lirico all’Arena di Verona, e seppe creare il mito del podio areniano, galvanizzando il pubblico con l’esecuzione di quell’Aida entrata nel mito. Daniel Oren è però, sicuramente, il direttore che ne ha raccolto in qualche modo il testimone, divenendo, da ormai trentacinque anni, una vera e propria icona della spettacolarità areniana, e portando le compagini veronesi al loro livello più alto. In questa stagione sono stati tre i titoli diretti dal Maestro israeliano: Turandot, Aida e Il Barbiere di Siviglia. Proprio il giorno dopo la sua ultima trionfale recita del titolo rossiniano, abbiamo avuto il grande piacere e onore di intervistarlo. 

Essere direttori d’orchestra può essere una decisione o è più che altro una vocazione?

Per quanto mi riguarda è stato un desiderio della mia mamma. Da bambino non ho mai deciso niente. La mamma sperava e pregava che gli nascesse un figlio musicista e si vede che Dio l’ha ascoltata. Aveva studiato psicologia e filosofia, e probabilmente fin da quando io sono nato ha cominciato a studiarmi, e ha visto del talento in me. Da quel momento ha deciso per me, dallo studio del pianoforte a sette anni, poi il violoncello, il solfeggio, l’armonia e il canto. Io avevo una bella voce e cantavo in Sinagoga. Eravamo una famiglia abbastanza religiosa e frequentavamo questa Sinagoga particolare a Tel Aviv, dove cantavano i bambini. Nella nostra religione, le preghiere possono essere cantate solo dagli adulti. Quella invece era particolare perché c’era proprio un coro meraviglioso di cinquanta bambini. Io cantavo anche da solista alle volte. Il sabato (Shabbat) non si può prendere nessun mezzo di trasporto e io facevo chilometri a piedi per andare a cantare alla sinagoga. Mia madre ad un certo momento ha deciso che avrei dovuto studiare anche canto, andando sempre contro tutti, perché molti lo sconsigliavano, soprattutto per la mia giovane età, soli dieci anni circa. Era una donna davvero “tosta” e decise che in ogni caso io dovevo studiare canto. Dopo avermi studiato per tredici anni e dopo avermi visto da bambino, come mi raccontava mio padre, battere e suonare le pentole sul balcone, ha deciso che non sarei stato né pianista né cantante, ma direttore d’orchestra. E così ricominciò la guerra contro tutti, per trovare un professore che insegnasse direzione d’orchestra ad un ragazzo di tredici anni. Tutta la mia strada è stata decisa da lei, anche se la musica sarebbe stata inevitabilmente la mia vita. Senza di lei non sarei mai diventato un musicista. Quello che sono lo devo tutto a lei.

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L’Arena di Verona è uno dei teatri a cui è più affezionato e in cui ritorna ogni anno…quali sono le emozioni che prova ancora oggi?

Qui in Arena fin dal mio debutto si è creato un legame particolare: nel 1984, con quella “Tosca” che si ricordano tutti e di cui ancora oggi si parla, anche perché avevo i cantanti più incredibili del mondo. E’ nata una grande storia d’amore tra me e l’orchestra e non sono mancato neanche un anno. Questa stagione ha segnato il mio trentacinquesimo anno qui all’Arena. L’emozione è fare musica, come sempre e in qualsiasi posto del mondo; qui però è diverso, perché c’è una magia particolare che non vi è in nessun altro luogo. Basta scendere quella discesa per dirigere, vedere il pubblico con le candeline e sentire quelle quindicimila persone dietro di te che ti danno una vibrazione particolare. Penso di essere il direttore che ha diretto di più all’Arena di Verona. Sono riuscito a trovare il compromesso per “fare musica” anche qui e non per far suonare semplicemente tutto forte, pensando solo di fare un grande spettacolo. Non ho mai fatto questo, neanche ne “Il Barbiere di Siviglia” che ho appena diretto. Ho pensato ad un Barbiere pieno di colori, anche se all’Arena è molto difficile farli. Io non ho paura di osare, sempre senza esagerare nelle dinamiche. Certamente dirigere in un teatro al chiuso è molto diverso. Due mesi fa ho debuttato alla Scala, dirigendo “Aida” ed è stata una delle emozioni più incredibili della mia vita e della mia carriera, fin dal preludio. Lì puoi fare delle cose, che ovviamente in Arena sono molto meno realizzabili, e devi fare assolutamente dei compromessi. In Arena si possono fare altre cose, dare importanza ad altri aspetti, senza rinunciare però alla musica, ai colori. In Aida io so che il punto forte dove devo galvanizzare e vincere è la scena del trionfo e so che posso farlo. La mia energia e il mio entusiasmo stanno tutti nel trionfo, ma la vera vittoria musicale è nel terzo atto, nella scena del tempio del I atto o nel finale.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Quest’anno ricorrono i cinquant’anni dalla morte di Tullio Serafin…Cosa significa l’eredità di questo Maestro per un direttore come lei?

Vuol dire tutto per me, un punto di riferimento, perché ho imparato tutto dai grandi Maestri italiani come Serafin, Antonino Votto, Arturo Toscanini, Victor De Sabata. Sono loro i miei grandi riferimenti fin da quando ho cominciato a dirigere l’opera. Non mi sono mai vergognato e non mi vergogno neanche oggi di imparare da loro. Tutto quello che loro hanno fatto era giusto e meraviglioso. Oggi i giovani hanno paura di imparare e di ascoltare e secondo me è un grande errore. Serafin ha creato la più grande cantante del mondo, quella che Leonard Bernstein chiamava “La Bibbia”, ossia Maria Callas, e lei non sarebbe stata “La Callas” senza Serafin. Questi per me sono i grandi Maestri.  se devo imparare qualcosa e prendere esempio da qualcuno vado ad ascoltare i grandi maestri del passato, senza togliere nulla ai grandissimi direttori presenti anche oggi, molti dei quali stimo e ammiro.

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Quali sono gli insegnamenti più grandi di questi Maestri?

Come fanno loro l’opera italiana non la fa nessuno. Sono dei modelli nella scelta dei tempi, le tradizioni, il lavoro e il rispetto dei cantanti. Bisogna cantare con gli artisti, creare i personaggi. Erano grandi in tutto, non c’era niente che gli mancasse.

Per la prima volta ha diretto “Il Barbiere di Siviglia” all’Arena…quali sono state le scelte nell’affrontare questo titolo e il repertorio rossiniano che non è il suo terreno abituale?

Ho diretto Il Barbiere in moltissimi teatri, quasi sempre con Leo Nucci. Ne ho fatta un’edizione anche all’Opéra Bastille di Parigi. In quell’occasione avevano annunciato un allestimento molto moderno e trasgressivo, e Leo giustamente rinunciò. Tuttavia poi fu invece uno spettacolo meraviglioso, uno dei più belli di quella stagione parigina. Ho lavorato moltissimo con Leo e fare musica con lui è davvero un godimento. Ci sono pochissimi che posso paragonare a lui. E’ un rapporto di dare/avere, un divertimento. E poi, come dovrebbe essere, ogni sera è diverso. Capita che con i cantanti non ci sia contatto, mentre con Nucci è il contrario, un contatto continuo. Penso in questa edizione di aver rispettato assolutamente Rossini e di aver approfondito la partitura in modo da darne autenticità stilistica anche all’Arena di Verona, rispettandone i colori. So che tantissimi Barbieri vengono suonati tutti sulle tinte del forte e del mezzoforte, ma ho cercato di esaltarne le mille sfumature. Ho cercato di non pensare al fatto di essere all’Arena, ma rispettare tutte le indicazioni cromatiche. Il confine è davvero molto labile, perché ho sentito qui delle recite dove i pianissimi erano esagerati e quindi non si sentivano nemmeno. Bisogna domandarsi quanto il piano dev’essere piano all’Arena di Verona. Negli anni penso di aver imparato come gestire le dinamiche, e questa volta non ho rinunciato alla leggerezza dello stile di Rossini. Delle volte ho avuto paura di esagerare e di rischiare di non arrivare alle orecchie del pubblico, ma ho rischiato e devo dire che è andata molto bene. Cecilia Gasdia ha poi riunito una compagnia davvero importantissima, da Metropolitan o Covent Garden: Leo Nucci è il numero uno, Dmitry Korchak lo stesso, Ferruccio Furlanetto è un basso “vero”, straordinario, dotato di una vocalità che ormai non si trova più da nessuna parte. Nino Machaidze è bravissima e ho già avuto il piacere di lavorare con lei, e Carlo Lepore (Don Bartolo) è stato per me una scoperta. Ha cantato il ruolo anche a Pesaro e ha una voce importante, giusta per Bartolo, così come la figura. Riesce a fare bene tutti i sillabati, e alla seconda recita mi sono divertito a velocizzare il tempo della sua aria, e lui ha retto benissimo. Con Leo abbiamo avuto sofferenze, tristezze, tragedie nel “Nabucco” che abbiamo fatto molte volte insieme ma stavolta abbiamo avuto di nuovo un momento per divertirci. Siamo stati felicissimi.

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Quando conta per il direttore avere i cantanti giusti?

Per me è assolutamente tutto. Sono un’altra persona quando ho i cantanti giusti. E’ come suonare un grande violino con un meraviglioso arco, o suonare un violino orribile con un arco orribile. Vengo da Madrid dove abbiamo fatto una Lucia di Lammermoor eccezionale, penso la più bella della mia vita, con Lisette Oropesa che è un angelo, divina, Javier Camarena, incredibile, Artur Rucinski, fantastico, Roberto Tagliavini, grandissimo. Ho fatto tante Lucie, alcune molto belle, altre meno, dove magari neanche io sono stato all’altezza. Però dipendo molto dai cantanti e mi è capitato di avere i cantanti sbagliati, una scena e una produzione non esaltante e anti-musica e quindi anche io non ho dato del mio meglio. In questa Lucia sono rinato, anche se tutti i tagli erano aperti, con l’effetto di essere sicuramente più pesante, ma è stato così forte e intenso, che è stata un’esperienza stupenda. Anche il regista David Alden ha fatto un lavoro profondo, creando una regia davvero forte. E’ stato un trionfo e il pubblico di Madrid ha detto che è stato il più grande successo che si ricorda da trentacinque anni a questa parte. Non posso che dire che dipendo dai cantanti. La stessa cosa vale per questo Barbiere veronese, dove dipendevo assolutamente da Leo Nucci. Lo so che esagero, perché non è davvero così, ma dopo Leo Nucci credo non si potrà fare più Il Barbiere di Siviglia. Sono arrivato alla prova di regia e c’erano Nucci e Korchak che facevano la scena della serenata ed era un momento meraviglioso. Era incredibile seguire il lavoro che i due facevano sulla loro interpretazione, con Leo che dava dei suggerimenti a Dmitry. Un lavoro così bello, così profondo che solo con un artista come Leo Nucci si può realizzare. Sono momenti che non hanno prezzo, un po’ come quello che ho vissuto con Franco Zeffirelli. Ricordo per esempio la scelta delle comparse per “I Pagliacci” all’Opera di Roma nel 1992. Io non partecipo mai a questi momenti, ma in quell’occasione decisi di andarci, perché ero sicuro che avrei imparato moltissimo da questo genio e sarebbe stato molto emozionante. Restai con lui due ore e fu una vera e propria lezione vederlo scegliere i figuranti. Assolutamente affascinante e che non dimenticherò mai.

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C’è un titolo che le piacerebbe portare in Arena, magari un titolo che non si fa da tanti anni?

Sarebbe bello “Andrea Chènier” e me lo ricordo qui, nel 1986 con José Carreras e Montserrat Caballé. E’ un grande titolo. La missione numero uno di Cecilia Gasdia sarà quella di riuscire a riempire l’Arena. In quegli anni non si poteva mettere un ago talmente era piena l’Arena, mentre oggi la situazione è cambiata. Dovrà pensare piano, piano a come riempirla e come ritornare a quei tempi e poi potrà osare con qualche titolo più rischioso. Le idee che lei indubbiamente ha mi piacciono moltissimo e sono molto affascinanti.

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Ricordiamo un po’ dei prossimi impegni…

Tra qualche giorno sarò a Pechino per “La Sonnambula” con una cantante italiana eccezionale, Rosa Feola, poi sarò a Liegi per “Il Trovatore” con Fabio Sartori e Violeta Urmana. Subito dopo sarò nel mio Teatro a Salerno per “Lucia di Lammermoor” con la bravissima Gilda Fiume e poi in Corea per “Il Trovatore”. Ritornerò in Cina, sempre a Pechino, per “Aida” con uno degli allestimenti più belli, con le scene di Ezio Frigerio, assolutamente grandioso. Mi piace ricordare che tornerò a Londra a maggio e giugno 2019 per “Andrea Chénier”, dove ci sarà una delle cantanti che amo di più al mondo, Sondra Radvanovsky, che spero  riesca a ritornare presto in Arena. Dopo Londra arriverà l’Estate e forse ci rivedremo qui!

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