Un esperimento ambizioso e lodevole nelle intenzioni, per questo portatore di grandi aspettative: Le Trouvère divide il pubblico del Festival Verdi, accorso numeroso nello splendido scenario del Teatro Farnese

Rappresentato per la prima volta il 12 gennaio 1857 all’Opéra (Salle Peletier) di Parigi, “Le Trouvère” altro non è che la versione francese del celeberrimo “Trovatore” che tutti ben conosciamo, da cui, al di là della lingua, differisce di poco complessivamente e nella sostanza ma i cui ritocchi non sono né casuali né trascurabili. A partire dal più vistoso e dal più prevedibile, trattandosi di una versione espressamente voluta per il pubblico francese: una ingombrante e scomoda parentesi di balletto, sullo stile più tipico del Grand-Opera d’Oltralpe, che spezza impietosamente la trama ma a cui Verdi non si poté in alcun modo sottrarre. Certamente gli va dato atto dell’apprezzabile sforzo di connettere, almeno dal punto di vista melodico, questa parentesi al resto dell’Opera con riferimenti a pagine musicali come il famoso coro gitano in uno dei diciotto movimenti che compongono le quattro suite di danza.

©️Lucie Jansch

Tra i tanti accorgimenti che si potrebbero ricercare (ma senza dilungarci non essendo questo il luogo), dal punto di vista drammaturgico e da quello musicale vi è senz’altro la ri-orchestrazione del coro “Squilli, echeggi la tromba” che ne svela un lato inedito e assai interessante a chi affronta per la prima volta questo titolo operistico. E’ il caso di chi scrive e probabilmente di molti dei presenti alle rappresentazioni poiché è occasione rara e, a titolo esemplificativo, vale ricordare che la città emiliana vanta una sola esecuzione nella propria Storia, al Verdi Festival del 1990 in forma di concerto e comunque non nell’edizione critica di David Lawton, che viene eseguita in prima assoluta.

©️Lucie Jansch

La cornice dell’evento è, per l’occasione, il Teatro Farnese, meraviglioso esempio d’architettura barocca, già sede di alcuni esperimenti negli scorsi anni ma forse non il luogo più adatto dal punto di vista acustico per la messa in scena di un’Opera, tanto più quando si tratta di titoli che per poter essere apprezzati necessitano delle giuste condizioni.

©️Lucie Jansch

Un continuo sottofondo di una ventola (?) e i grandi spazi aperti, con la sensazione che il suono arrivasse quasi da dietro le quinte, non hanno così certamente valorizzato l’ottima prova dell’Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna, diretti dal M° Roberto Abbado. La sua direzione può risultare a tratti lenta ma è indubbiamente in sintonia con il gusto francese, meno sanguigno e viscerale. Dinamiche e sfumature sono curate e ricercate con grande sapienza e il suono, pur condizionato dall’acustica è sempre morbido e di grande qualità. Il merito, per quanto riguarda il coro, è certamente anche del M° Andrea Faidutti.

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Il cast di interpreti vanta nomi importanti che di per sé non deludono le aspettative ma finiscono per essere anch’essi (forse più di tutti) influenzati da situazioni di cui non possono considerarsi responsabili. Primo fra tutti Manrique, Giuseppe Gipali, tenore dal timbro piacevole e luminoso, elegante nel canto ma spesso quasi inudibile da metà sala, in particolar modo nelle scene d’insieme. Particolarmente apprezzata la sua interpretazione intima e sentita di “Ah sì ben mio”.

©️Lucie Jansch

Franco Vassallo è un Conte di Luna di grande suggestione per la bellezza della voce e la nobiltà del canto, sempre omogeneo e raffinato. Molto positive le prove delle due protagoniste femminili: Lèonore, Roberta Mantegna, padrona assoluta del proprio ruolo sia sul lato interpretativo che su strettamente musicale e Nino Surguladze, Azucena, perfettamente a suo agio in questa particolare versione in cui forse una voce come la sua si adatta meglio di quanto non farebbero tante altre “vocione” cui siamo abituati associare il personaggio nella versione italiana.

Bravi a completare il cast Marco Spotti come Fernand, Luca Casalin come Ruiz e Un Messager, Tonia Langella (Ines) e Nicolò Donini (Un vieux Bohemien).

©️Lucie Jansch

A dividere la sala e a provocare accese contestazioni a metà spettacolo è la regia di Robert Wilson (apostrofato da qualche spettatore contrariato “pagliaccio”) che come suo solito, punta su una lettura molto personale, astratta ed essenziale, molto articolata ed ambiziosa nelle intenzioni spiegate nel libretto di sala ma che finisce, come sovente accade, per scontrarsi con la realtà effettiva e materiale: scene completamente vuote, fastidiosissimi led accecanti apparentemente privi di una reale funzione, personaggi costantemente rigidi e ingessati e limitati ad una gestualità da manichini totalmente avulsa dal contesto, totale assenza di riferimenti geografici-temporali di qualsiasi tipo, qualche mimo intento a trasportare carrozzine e fontane e poco altro. Viene da chiedersi se non sia meglio forse in fin dei conti eliminare quei pochi elementi di disturbo che la regia si limita ad inserire e non svolgere una degna esecuzione in forma di concerto. I venticinque minuti di balletto riempiti con una estenuante e esaurente sequenza di pugili adulti e bambini è il culmine di tutto. Wilson pare cadere in un errore comune a molti registi: voler strafare, costruendo castelli di sabbia, di grande interesse sulla carta ma fallimentari nell’effettiva realizzazione. Il motivo è semplice: di tutto ciò le opere di Giuseppe Verdi non hanno bisogno, così come la musica non ha bisogno che le si crei uno spazio (come Wilson sostiene) ma più che mai chiede di essere rispettata e accompagnata da allestimenti coerenti che ne valorizzino i contenuti.

©️Lucie Jansch

Tutto ciò è opinione non di un critico ma di uno spettatore innamorato che si permette di dare un consiglio: volete avvicinare davvero i ragazzi e le ragazze al mondo dell’Opera? Permettete loro di apprezzare senza disturbi e contaminazioni la grandezza di chi le ha composte e di comprendere appieno che cosa stanno osservando e ascoltando.

Grigorij Filippo Calcagno

Parma, 7 ottobre 2018

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