Molti dicono che ascoltare Verdi a Parma ha un altro profumo. Sembrerebbe una banalità e una sciocchezza (sappiamo i rapporti controversi che Verdi ebbe con il suo suolo natio), tuttavia è proprio così. E non è il profumo del prosciutto o quello del Lambrusco. È l’effluvio di autenticità e di amore che si respira in teatro, sia sul palcoscenico, e cosa non scontata, anche tra il pubblico. Uno dei meriti principali dell’atmosfera che si respira a Parma è il lavoro illuminato della sovrintendente Anna Maria Meo, che in pochissimi anni è riuscita a creare un grandissimo interesse intorno al Festival Verdi, non facendo altro che utilizzare la città come un vero palcoscenico a cielo aperto, con tutti i suoi luoghi storici, e portando a Parma cantanti che si possono definire eccellenze nel canto verdiano. Il Festival Verdi è diventato vetrina del migliore teatro verdiano, delle gemme della città di Parma, e anche modello di gestione per tutti i teatri italiani.

©Roberto Ricci
Quattro i titoli in cartellone, più una serie di iniziative collaterali, che vanno a toccare anche generi musicali e artistici diversi, dal rap all’arte contemporanea e multimediale. Quattro opere e quattro nuovi allestimenti.
Tra questi, una nuova produzione di “Attila” con la regia e le scene di Andrea De Rosa. Il regista napoletano firma uno spettacolo di sicuro effetto, forse non originale, ma efficace nel delineare le dinamiche relazionali tra i personaggi e nel costruire effetti suggestivi con velari su cui venivano proiettate ombre ed immagini evocative. In questo è aiutato dal prezioso disegno luci di Pasquale Mari, capace di creare la scena, che è d’altronde costituita soltanto da una pedana con una grande fossa centrale e qualche sparuto elemento di arredo. Sappiamo Alessandro Lai capace di autentiche opere d’arte con i suoi costumi. In questo caso, probabilmente su richiesta del regista, realizza degli abiti totalmente atemporali, che non convincono: generiche divise militari per gli uomini, e due abiti da sera contemporanei per Odabella. In questo contesto così tradizionale non sarebbe stato peccato utilizzare abiti d’epoca.

Grande protagonista è la direzione di Gianluigi Gelmetti, che fa emergere tutta la potenza espressiva di questa musica, che viene equivocamente scambiata solo per un’opera battagliera, con risvolti patriottici e garibaldini. In realtà Attila è un capolavoro di filiazione donizettiana, in cui lo stile del compositore bergamasco viene filtrato attraverso l’espressività verdiana, che raggiunge qui una concisione drammatica del tutto nuova, pur rimanendo profondamente belcantista. Gelmetti sa esaltare le cabalette e le strette, ma sa dare anche suono alle trasparenze dei cantabili e dei dettagli strumentali. È seguito in maniera magistrale dall’Orchestra Filarmonica “Arturo Toscanini”. Eccellente la prova del Coro del Teatro Regio diretto da Martino Faggiani.
Compatto il cast schierato. Maria José Siri veniva a capo dignitosamente del ruolo di Odabella. Si evidenzia nettamente che la coloratura drammatica non è il suo territorio, tuttavia dispiace che anche nella seconda aria, più lirica, seppur densa di stilemi belcantistici, non sappia trovare gli accenti sfumati di cui la conosciamo capace. Brillante il côté maschile del cast, a partire da Paolo Battaglia (Leone) e soprattutto dall’Uldino di Saverio Fiore, che si sapeva ritagliare un ruolo di autentico protagonista, grazie a brillantezza vocale e pregnanza scenica.
Francesco Demuro mette a frutto tutta la sua competenza nel campo del Belcanto, riuscendo a donare assoluta nobiltà al canto di Foresto, personaggio dalla vocalità ostica ed ingrata. Demuro convince grazie al canto sincero, sempre “sulla” parola, e la brillantezza di un timbro tra i più belli oggi. Sia la cavatina “Ella in poter del barbaro” che la romanza del III atto “Che non avrebbe il misero”, ottengono ardente spessore espressivo e vocale.

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Un autentico trionfo personale per l’Ezio di Vladimir Stoyanov, capace di sciorinare accenti di verdianità autentica, ossia un suono plastico e scultoreo che si plasma con infinita aristocrazia sulla linea del generale romano. Genera sincera e grandiosa emozione intonando frasi come “Avrai tu l’universo, resti l’Italia a me”. La grande aria e cabaletta “Dagli immortali culmini…È gettata la mia sorte” diventa il momento topico della recita e raccoglie i plausi più entusiasti.

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Riccardo Zanellato nei panni del protagonista sceglie (giustamente) di abbandonare la visione machista imposta dalla tradizione, scegliendo di ritrarre un Attila infido, ancora più cattivo, ma nobile e signorile, privilegiando un canto plasmato sull’eleganza dell’accento più che sull’impeto e il tono stentoreo.
Al termine un calorosissimo successo.
Francesco Lodola
Parma, 13 ottobre 2018