Lo spettacolo che inaugura una nuova stagione operistica viene sempre vissuto come un evento, dal piccolo teatro di provincia al grande teatro di fama. Gli occhi di pubblico, critica e stampa sono tutti puntati alla ricerca della via per poter parlare di difetti, dal cast giudicato non all’altezza, alla scelta del titolo catalogato come banale per una prima.
La situazione del Teatro Regio di Torino quest’anno si è presentata così solo in
parte: il titolo è sì uno dei più popolari, ma sul palcoscenico sabaudo mancava già da tredici anni; il cast comprendeva sì dei nomi meno internazionalmente conosciuti rispetto alle precedenti stagioni, ma non per questo potevano essere giudicati non all’altezza, ancor più in una situazione economica così delicata come l’attuale del teatro torinese.

Gli occhi erano dunque puntati su uno spettacolo visto come “il debutto dei rinnovati vertici teatrali con la prima stagione di loro completa creazione”.
Le polemiche suscitate alla sua presentazione furono molte, proprio per la presenza quasi ingombrante di un numero di titoli nazional-popolari giudicato da molti eccessivo; la giustificazione a questa scelta venne posta nel tentativo di tornare a segnare il tutto esaurito con titoli di grande richiamo soprattutto turistico, dopo il lieve calo di biglietti venduti nelle ultime stagioni. Spiace e preoccupa notare come questa “tecnica” sia stata fallimentare almeno per quest’opera, tanto da non riuscire a far registrare il tanto sperato “sold out” nemmeno alla prima, ben inteso che non sarebbero i pochi soldi ottenuti da un maggior numero di vendite a poter sanare il bilancio in rosso.

A livello artistico lo spettacolo risulta avere più lacune, ma anche piacevoli sorprese.
Cominciando dalla parte dolente, non si può che parlare di tutto l’aspetto
scenografico e registico. Paul Curran (il regista) aveva firmato quest’allestimento a Bologna nel 2005 e premesso che non siamo a conoscenza di come venne accolto nel capoluogo emiliano, qui a Torino si è senza dubbio rivelato come la parte peggiore dello spettacolo. Se la trasposizione temporale da Medioevo/Umanesimo a Risorgimento di per se poteva essere un’idea non eccessivamente disturbante purché non venisse meno, come invece è accaduto, una serie di valide azioni che giustificassero tale trasposizione, ciò che più è risultato scadente è stata la gestione dei movimenti delle masse sul palcoscenico; la scelta delle scene (Kevin Knight), tetre e ripetitive; le luci
(Bruno Poet), anch’esse ripetitive e poco coinvolgenti; e ancor più alcune azioni che sono risultate insensate e inconcludenti, a tratti ridicole, come gli schiaffeggiamenti delle suore nei confronti dei soldati incapaci di tener loro testa, alla fine della 2a parte; l’urlo disperato di una fanciulla che s’ode all’inizio della 3a parte; o ancora la forza sovrumana di Azucena che riesce a liberarsi più volte dai lacci che la tengono prigioniera, scaraventando a terra ben cinque soldati, per poi rivelarsi incapace di
trarre in salvo il figlio condotto a morte da due soldati.
Tutto ciò ha destato non pochi sussulti, vocii e risa soffocate tra il pubblico, a conferma di quanto innaturale e ridicola risultasse la situazione.
Sul versante strettamente musicale è emersa, senza troppe difficoltà, una netta
separazione in termini di qualità della prestazione tra i protagonisti maschili e femminili.

Cominciamo dunque da questi ultimi ed in particolare da Rachel Willis-Sørensen,
vera rivelazione della serata. Il soprano americano ha vestito i panni di Leonora con una sicurezza e dolcezza nel portamento esemplari, aiutata anche dal suo bellissimo volto e dalla sua figura alta e slanciata; vocalmente, a parte alcuni acuti non perfettamente girati in maschera, la Willis-Sørensen è dotata di un piacevolissimo timbro dolce e delicato, ma non per questo debole, emerge inoltre una cura minuziosa nel fraseggio per cui nessuna parola risulta fuggire ad un preciso valore e significato. Grandi e lunghi applausi al termine di una resa emozionante e tecnicamente molto valida della seconda aria di Leonora “D’amor sull’ali rosee”.

Anna Maria Chiuri, ormai affezionata presenza al Teatro Regio di Torino, è il
mezzosoprano che ha interpretato la zingara Azucena con grande e travolgente
passione sia scenica che vocale, a dispetto di un paio di problemi minimali e di
un uso del registro di petto, forse talvolta eccessivo. Bisogna però riconoscerle, oltre alla travolgente passione con la quale ha interpretato un personaggio così complesso, la grande cura nelle dinamiche, che troppo spesso vengono trascurate e che in questo caso sono state un importante punto di forza.

Come già anticipato, il punto dolente è stato il cast al maschile, a cominciare dal Manrico del tenore messicano Diego Torre, annunciato come indisposto ad inizio spettacolo, ciò non gli ha risparmiato alcuni fischi ed un dissenso generale. Non aiutato da una totale mancanza del cosiddetto physique du rôle e vocalmente fortemente costretto ai limiti, probabilmente proprio a seguito dell’indisposizione, si risolleva leggermente negli ultimi due atti e porta dignitosamente a termine la recita, ma la performance risulta comunque insoddisfacente.

Delude il Conte di Massimo Cavalletti, il cui pregio è stato un timbro
generoso, mentre il personaggio è apparso non perfettamente delineato sia scenicamente sia vocalmente, con più di qualche imperfezione vocale.
Il Ferrando del basso In-Sung Sim è risultato convincente scenicamente, ma
vocalmente mancava in gran parte di quello spessore che dovrebbe caratterizzare il vero basso verdiano.
Hanno completato correttamente il cast la Ines del soprano Ashley Milanese, il Ruiz del tenore Patrizio Saudelli, un vecchio zingaro del baritono Desaret Lika, ed il messo del tenore Alejandro Escobar.

Eccellente la performance dell’Orchestra del Teatro Regio di Torino, diretta dal
Maestro Pinchas Steinberg che ha saputo creare una sintonia perfetta tra golfo
mistico e palcoscenico, senza mai lasciar prevalicare l’uno sull’altro, e riscoprendo tempi più dilatati ed estremamente efficaci, solo raramente considerabili lenti.
Ottimo come sempre il coro del Teatro Regio, diretto da Andrea Secchi.
Gli applausi più lunghi e ricchi di affetto sono però stati tributati prima dell’inizio spettacolo, quando il sipario si è alzato su una folta schiera di lavoratori del Teatro, dai professori d’orchestra agli artisti del coro, dagli elettricisti ai truccatori, i quali hanno tutti manifestato preoccupazione per l’attuale situazione finanziaria del teatro, anche a seguito del recente taglio dei contributi del FUS per il 2018.
La situazione è stata presentata da un portavoce, il quale ha sottolineato come i lavoratori non abbiano voluto penalizzare gli spettatori, rinunciando così al loro diritto di sciopero. Anche noi vogliamo esprimere la nostra vicinanza nei confronti di ciascun lavoratore della prestigiosa istituzione torinese, che negli anni hanno contribuito a portare alto nel mondo il nome del capoluogo piemontese, e del “made in Italy”, fiduciosi che questo nobile obbiettivo possa essere continuamente perseguito con serenità.
Stefano Gazzera
Torino, 21 ottobre 2018