E’ la terza volta che intervistiamo Andrea Mastroni ed è la terza volta che questo incontro con l’artista mette in evidenza una ricerca che va al di là della vocalità, ma che invece assume su di sé il peso filosofico e culturale di un ruolo o di un’opera musicale. Questo lavoro di scavo negli abissi, diremmo quasi psicoanalitici, di una creatura artistica è quanto mai imponente quando ci si trova di fronte ad un personaggio come Don Giovanni. Proprio oggi (27 gennaio 2019), nel 263esimo compleanno di Mozart il basso incontrerà per la prima volta sulla scena, al Teatro Filarmonico di Verona, l’iconico seduttore di Siviglia, e proprio tra una prova e l’altra, abbiamo avuto il grande piacere di parlarne con lui…

Don Giovanni è un mito prima che musicale, culturale: quali sono le emozioni e le difficoltà nel confrontarsi con questo cimento?
Vestire i panni di una figura in qualche modo archetipica, in questo caso quello del seduttore per antonomasia, toglie il fiato. E’ una sorta di figura assoluta, di ideale caratterizzabile e predicabile di infinite sfaccettature, come viene raccontato per la prima volta dalla fonte barocca di Tirso de Molina (Il burlador de Sevilla y convidado de piedra). L’emozione è quello di doversi relazionare con una sorta di mostro sacro, perché credo che raccontare Don Giovanni necessiti alla fonte una ricerca articolata, per poterla poi esprimere in termini attoriali e vocali. L’emozione è quella di rendere il motivo della bellezza di questo personaggio sempre in fuga, costantemente crogiolato in un ‘non-tempo’ e in un affanno di ricerca di chi sarà la fonte del suo appagamento, che evidentemente non esiste. La difficoltà del confrontarsi con questo mito sta sicuramente nel tentativo di non essere mai leggero o grossolano nel rappresentare le sue seduzioni e le sue strategie: una specie di stratega in continuo silenzio e quindi in un grande stato di dinamismo.

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©Nicola Garzetti

Hai avuto la possibilità di osservare questo ruolo mozartiano attraverso gli altri ruoli di quest’opera che hai interpretato (Masetto, Leporello e Commendatore)…qual è stato il processo di studio che hai seguito?
Affrontare un ruolo così speciale, dopo aver vestito molte volte i panni di altri personaggi della storia ed averlo quindi osservato, ti rivela cosa possa essere il seduttore e cosa no. Senz’altro mi è stato utile intuire una sua caratteristica: il ritmo. Dicevo che  Don Giovanni sia creatura senza tempo, perché non è una categoria che lo interessa. Lui seduce, afferra, getta e fugge: d’esempio sono i tanti recitativi con Leporello. I dialoghi devono essere estremamente ferrati, guizzanti, veloci… Se Don Giovanni avesse tempo si trasformerebbe in uomini come Don Ottavio, Masetto, Leporello: ma lui è al di là.
Mi sono molto interrogato su come declinare i suoi accenti nelle azioni: che voce deve avere Don Giovanni? Non esiste, perché è talmente sfuggevole da declinarsi in mille modi diversi a seconda del destinatario della sua seduzione: quindi non può avere una sola voce. La Serenata ad esempio è un atto di teatro, non un gesto d’amore: è nel pieno di quel registro, che deve avvicinarsi alla femminilità, perché la donna non ne abbia paura e ne venga quindi vinta. Esattamente come in ‘Là ci darem la mano’: quanti piani musicali sono scritti in partitura da Mozart? E l’orchestra? Esiste morbidezza simile in un gioco di seduzione? Tutto ciò mi ha fatto cercare e indagare colori differenti per declinarmi in ciò che il libretto e la musica chiedono di essere a Don Giovanni.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Il tuo ultimo progetto concertistico e discografico aveva come “filo conduttore” la Melancholia…quanta melancholia c’è in Don Giovanni?
Moltissima! E’ un capolavoro di malinconica disperazione della vita estetica, sosterrebbe Kierkegaard qualche tempo dopo. Gli ‘affetti’, nel senso monteverdiano del termine,  sono essenziali per mettere in scena un ruolo del genere, esattamente come mi sono stati utili per declinare e decifrare i miei ultimi lavori discografici (Serse per Deutche Grammophone e Melancholia, di cui già discorremmo) e teatrali händeliani (Garibaldo in Rodelinda a Lille e Parigi, Champs Elysees). Don Giovanni è melanconia allo stato puro, è un essere in una perseverante condizione di bisogno e di mancanza: è ciò viene ancor più incrementato dalla coscienza che questo sarà uno stato infinito di continua necessità. Altrettanto melanconico è il fatto che la donna di don Giovanni non esista: esistono i predicati della femminilità, per cui Elvira, Anna e Zerlina. Ma questo non è definitivo: la ricerca dovrà necessariamente continuare..

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©Simon Gosselin

Don Giovanni comporta anche una richiesta teatrale piuttosto importante…quanto è fondamentale per un artista lirico attuale l’attorialità?
Nei tempi attuali la teatralità è un requisito essenziale: ci è chiesto di piegare la vocalità a richieste ed esigenze registiche davvero assortite. Non dimentichiamoci poi che molto spesso siamo in diretta nei cinema o le nostre recite sono registrate per essere prodotte in DVD: avere una camera che segue la tua recitazione ti obbliga a lavorare sui dettagli in maniera davvero essenziale. In produzioni dove il regista è maestro di un’intenzione e di un’idea, è splendido potersi mettere alla prova: il tuo canto ne può solo giovare. Non dimentichiamoci che la derivazione di tutto il linguaggio melodrammatico  è il ‘recitar cantando’ (dove la recitazione viene prima del canto, perché la esprima e ne sia intimamente connessa). Don Giovanni richiede un essere istrioni sulla scena: deve sapere fingere, deve saper fuggire, deve sapere lusingare, deve riuscire a guardare negli occhi gli altri e deve saper ‘condurre a sé’ (se-durre) i suoi interlocutori. Ho detto nulla, insomma (ride ndr).

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©Javier Del Real

Il ruolo mozartiano che affronti più spesso è Sarastro, un ruolo di forte sacralità, elemento che non è estraneo a Don Giovanni…quali sono le affinità tra questi due personaggi?
Sarastro è uno strumento, è il simbolo di un linguaggio propriamente ideale, come la Regina della Notte: Don Giovanni è l’irrisione della sacralità, anche se credo non sia errore dire che nella scena finale – la morte – lui sia costretto a combattere vocalmente ad armi pari con il Commendatore, con il quale abbiamo risposte e reazioni davvero simili a livello di tessitura, ma in un clima e con un accento realmente drammatico…il primo per lui dall’inizio della vicenda.

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©Nicola Garzetti

Prossimi impegni…
Il prossimo impegno è ancora veronese: eseguirò a febbraio i Kindertotenlieder e i Rückert Lieder di Mahler con orchestra sul palco del Filarmonico. A questo seguirà La Calisto di Cavalli con Ivor Bolton al Teatro Real de Madrid, la IX Sinfonia di Beethoven ad Atlanta, Agrippina in tre occasioni: in tour (e poi in disco per Erato) con Joyce Di Donato e il Pomo D’Oro al Barbican, Champs Elysees, Liceu di Barcellona, Real de Madrid/ al Festspiele della Bayerische Staatsoper a Monaco e in una nuova produzione per la Royal Opera House. Sarò Selim ne Il Turco in Italia al Festival di Glyndebourne, ancora Sarastro e una prima esecuzione moderna di Achille in Sciro al Real de Madrid, debutterò Gremin in Evgenij Onegin al Liceu di Barcelona, e  due nuove produzioni di Rigoletto con Pappano all Royal Opera House e una al MET. Per la concertistica canterò un Recital di Canto su Händel al Teatro Real de Madrid e Le Danze della morte di Mussorgsky ad Helsinki con l’orchestra della Finnish Radio.

Grazie ad Andrea Mastroni e In bocca al lupo!

Francesco Lodola

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