Marco Armiliato è uno dei nomi più celebri della direzione d’orchestra contemporanea. Genovese di nascita, dopo gli studi ha girato il mondo, accolto sui palcoscenici internazionali più importanti (dal Metropolitan di New York alla San Francisco Opera, alla Staatsoper di Vienna) portando ai più alti livelli i grandi titoli dell’opera italiana e non solo. Durante la sua carriera ha collaborato con grandi artisti del passato e del presente. Fra pochi giorni, dopo i grandi successi sulle più prestigiose ribalte mondiali, farà il suo atteso debutto operistico al Teatro alla Scala di Milano con una Traviata di grandi stelle, da Angel Blue a Francesco Meli e Placido Domingo, nello sfarzoso allestimento di Liliana Cavani. Proprio in occasione di questo prezioso appuntamento abbiamo avuto il grandissimo piacere intervistarlo.
Come ti sei avvicinato al mondo della musica?
In realtà la musica è sempre stata parte della mia famiglia, perciò ci convivo più o meno da quando sono nato. La mia famiglia la coltivava, mio papà era un grande appassionato, oltre che pittore. Posso dire che sia stato un percorso naturale, ho poi iniziato a suonare il pianoforte da bambino, ma la ho sempre vissuta e la vivo come una passione “genetica”, non ho mai pensato di intraprenderla con una prospettiva diversa di quella dell’essere parte della mia vita quotidiana.
Perciò, durante gli anni della prima formazione, c’è stato un momento in cui hai deciso di diventare direttore oppure tutto è avvenuto in modo spontaneo?
Ho sempre avuto un grande interesse nell’accompagnare, accompagnare tutti gli strumenti, sin da quando studiavo a Genova, dove facevo i saggi di quasi tutti gli strumentisti. Penso sia nata così la grande passione per gli strumenti musicali (oltre al pianoforte, il violino ed il clarinetto, per esempio) e dell’orchestra come partecipazione collettiva, e il canto, oltre ad essere stato favorito da mio padre e da mio fratello, lo vedo un po’ in questa stessa prospettiva.
Ci sono degli insegnamenti, dei valori del tuo primo periodo professionale che porti tutt’ora con te?
Ho avuto la fortuna di lavorare con molti dei “grandi” del passato, magari nell’ultima parte delle loro carriere. Ho nel cuore Pavarotti, per me quasi un secondo padre, mi ha sempre preso in grande stima e per me era il Tenore. Era un uomo molto saggio e divertente da frequentare, dava consigli intelligenti ed era uomo di grande intuitività. Mi ha trasmesso questo modo di vedere le cose, con passione e vivacità.
Non a caso anche lui era un musicista nato, non solo per le predisposizioni, ma anche per l’ambiente in cui era cresciuto. E poi è venuta la tua affermazione. Come vivi ora il tuo lavoro?
Penso che l’affermazione vera non esista. Si cerca sempre di fare il meglio, ed è il pubblico a decidere. Io penso di fare il bene della musica e trasmetterlo con entusiasmo e passione, che secondo me è l’obbiettivo massimo. Portare a un pubblico nuovo le partiture di secoli fa, con la voglia di trasmettere la passione che c’è in essi.
La tua carriera ha toccato numerose località del mondo. C’è un luogo che ti ha colpito?
E’ banale dire il Met, dove sono alla venticinquesima stagione, ma anche a Vienna, dove a partire dal mio debutto nel ‘96, ho fatto molte recite. Sono luoghi dove mi sento un po’ a casa, con grandissime orchestre che amano quello che suonano, si tratta di un bell’incontro e di volere tutti uno stesso scopo. Loro si fidano della mia formazione italiana, sono davvero fortunato ad avere un grande affetto da parte dei miei collaboratori, che sono i musicisti. E’ un affetto del tutto reciproco. Mi piace che il musicista sia a suo agio, rilassato, che abbia voglia di fare bene e che così il pubblico si interessi.
Il Met che tu citavi prima ha una concezione del cartellone diversa rispetto alla maggior parte del teatri italiani…
New York è una città enorme, che ha un teatro davvero grande. Perciò, la stagione è concepita per tutte le comunità che la abitano. Naturale che ci sia prevalenza di titoli italiani, che sono i più noti e numerosi . Ci sono spettacoli che a New York hanno in repertorio da anni e non smettono di riempire la sala, come Boheme nella regia di Zeffirelli (o anche le produzioni di Faggioni), perché la gente vuole vedere le cose belle. Accanto a questi, il Metropolitan programma anche titoli insoliti e nuove produzioni, seguendo perciò un mix; questa stagione per esempio mettono in scena Marnie, tratto da un romanzo che ha ispirato anche un film di Hitchcock.
Il pubblico cambia fra le nazioni?
Il pubblico cambia col tempo, arrivano nuove generazioni che si appassionano. Credo sia giusto istruire il nuovo pubblico. La divulgazione è sempre la cosa più bella da fare. L’opera si fa conoscere attirando le gente a vederla. E anche in periodi di difficoltà economica, dove magari le persone preferiscono restare a casa con mezzi di intrattenimento meno impegnativi, credo che dobbiamo promuovere la bellezza dell’opera, e dell’opera live.
Quali sono i compositori con i quali trovi più difficoltà tecniche, nella conduzione?
Sicuramente il belcanto, il primo Donizetti e Bellini, che ha una orchestrazione particolare: a momenti di grande tensione drammatica si succedono intere sequenze dove in buca ci si limita ad accompagnare, magari con dei pizzicati. Bisogna sempre cercare di rimanere concentrati e vivere anche i momenti meno tesi, a differenza magari di Puccini, che instaura una tensione musicale continua.
Quali sono invece gli autori con cui ti trovi meglio?
A questo tipo di domande, tendo sempre a rispondere: quello che faccio adesso. Ho la fortuna di vivere in un mondo che ogni giorno mi riserva qualcosa di nuovo e di bello. Forse quando dirigo Puccini me lo sento più vicino, mi piace ritrovare i suoi lati impressionistici come quelli derivati dai compositori francesi. Tra i titoli che ho incontrato mi sono innamorato di Cyrano di Alfano, un mondo nuovo affascinante, dove ho scoperto una musica che richiama per alcuni versi Zandonai e i compositori francesi.
Lavori quotidianamente con dei grandi nomi dell’opera, che spesso accompagni anche nei concerti solistici. Ti sembra che la figura del cantante sia cambiata, rispetto a quando hai iniziato?
Sicuramente si tratta di un’altra generazione che vive in un’epoca diversa, però quello che vivo sempre è un grande entusiasmo del pubblico, che oggi per esempio riscontro con Anna Netrebko, che riempie gli stadi e da questo lato c’è una continuità su questa linea. Quando ho cominciato ho vissuto con i grandi del Novecento e loro per gran parte sono ancora amici miei, e oggi ci sono tanti altri nomi. Abbiamo molti talenti italiani, forse mi piacerebbe vederne anche di più. Il Met per esempio ha da sempre incentivato i giovani, con il famoso concorso dal quale sono usciti nomi con cui tutt’ora lavoro.
Questa è un’epoca di grandi cambiamenti per la discografia, i nuovi mezzi digitali sembrano avere sostituito l’oggetto CD (o disco). Come vedi questa situazione?
Il mercato discografico ha subito grande rivoluzione. Le forme di ascolto in streaming (per esempio Spotify, Google o Apple Music) hanno tutto, una volta io risparmiavo per comprare la nuova Boheme con Pavarotti e la Freni, oggi posso ascoltare potenzialmente tutte le versioni che voglio. C’è una prospettiva diversa, molto più simultanea, anche se credo si debba trovare una giusta via di convivenza fra i vecchi e i nuovi mezzi di ascolto.
Cosa hai in programma per i prossimi mesi?
A Zurigo faremo Manon di Massenet con Piotr Beczala, e poi mi aspetta Vienna con Andrea Chenier (Anna Netrebko-Yusif Eyvazov) e l’apertura dell’Opernball. Più in là anche Macbeth, titolo che mi piace molto e Adriana Lecouvreur.
Grazie a Marco Armiliato e In bocca al lupo!
Stefano de Ceglia