Essenzialità e semplicità. Con queste due parole possiamo riassumere “Orfeo ed Euridice” di Christoph Willibald Gluck, andata in scena al Teatro dell’Opera di Roma nella sua versione originale di Vienna del 1762. Da cinquant’anni l’opera non veniva riproposta nel cartellone del teatro romano, ma il pubblico ha accolto ben volentieri questa produzione firmata dal regista Robert Carsen.

Essenzialità e semplicità vediamo nelle scene spoglie, dove non si possono cogliere specifiche indicazioni temporali. Una scelta volta ad indicare un mito senza tempo, di un amore che supera la morte e che non ha confini. Anche la scelta di Tobias Hoheisel di utilizzare abiti modesti e per lo più di colore nero è mirata a non attirare l’attenzione, poiché l’azione sulla scena è tutto ciò che deve interessare.

Ad affascinare, oltre alla musica di Gluck, sono stati gli interpreti, coro compreso. Carlo Vistoli, nel ruolo di Orfeo, fa fuoriuscire completamente il dolore del protagonista per la perdita dell’amata, poi per l’impossibilità di poterla guardare dopo averla ritrovata ed infine nuovamente per la sua perdita. Il suo timbro è molto dolce e ricco di sfumature, che si può ben notare nel terzo atto durante la famosa aria “Che farò senza Euridice”. Bisogna ricordare che anche le pause possono diventare uno strumento di espressività e, in questo caso, le pause hanno quasi creato un effetto di tensione, il pubblico è appeso ad un filo aspettando che Orfeo riprenda a cantare. Vistoli ci dona diversi attimi pregnanti di emozione, come anche sfoggia le sue agilità tipiche da controtenore. Solamente nel primo atto la sua voce si perde un po’, coperta nei gravi dall’orchestra diretta da Gianluca Capuano.

L’Euridice di Mariangela Sicilia è struggente, soprattutto nel duetto del terzo atto “Vieni, appaga il tuo consorte” dove l’interpretazione è così autentica che il pubblico romano si immedesima ed è come se ci fossimo dimenticati dell’ordine di non guardare Euridice finché non arrivino nel mondo dei vivi, poiché vogliamo ardentemente ch si possano finalmente guardare dopo tante sofferenze.

Il coro del Teatro dell’Opera di Roma, magistralmente preparato dal maestro Roberto Gabbiani, è sempre molto protagonista, grazie anche alle scelte del regista. È spesso presente in scena ed è dinamico.
Infine Amore, interpretato da Emőke Baráth, è poco presente sulla scena ma è come se fosse il personaggio più importante. È Amore che sostiene il giovane Orfeo ed è lui che alla fine dona nuovamente vita ad Euridice, in modo che i due amanti possano stare insieme. È il dantesco “Amor che move il sole e l’altre stelle”, reso a perfezione dai movimenti alla voce dolce della Baráth.
Dalle ovazioni finali si può constatare come il pubblico romano abbia apprezzato quest’opera che da decenni non veniva rappresentata sul palco del Costanzi.
Sara Feliciello Roma, 21/03/2019