Fabio Armiliato è una delle figure più conosciute e amate del panorama operistico internazionale: un artista con una grandissima carriera alle spalle, diventato interprete di riferimento per molti grandi ruoli del melodramma italiano, incarnando il prototipo dell’eroe romantico. Da domenica 31 marzo 2019, il tenore genovese (ma di origini veronesi), è di ritorno nella città scaligera per interpretare Maurizio di Sassonia nell’Adriana Lecouvreur in scena al Teatro Filarmonico. E proprio in questa occasione abbiamo avuto il piacere di intervistarlo. 

Cominciamo la nostra intervista parlando innanzitutto di questa produzione che vedrà il tuo ritorno al ruolo di Maurizio…

Questo spettacolo prevede un piccolo spostamento temporale: la storia sarà ambientata nei primi del Novecento, l’epoca delle grandi dive del teatro come Eleonora Duse e della Belle Époque. Il nodo centrale sarà in particolare una vera e propria esaltazione della Diva. Adriana è una di quelle trame operistiche un po’ contorte, tanto che verrebbe quasi voglia di avere il commissario Montalbano a disposizione per indagare sul delitto orribile, atroce, commesso dalla Principessa di Bouillon (ride). L’affronto che la Principessa subisce pubblicamente nel III atto mette certamente i pilastri per una possibile vendetta, ma di certo nessuno avrebbe pensato ad un omicidio così violento e punitivo, compiuto attraverso un oggetto d’amore che durante l’opera passa di mano in mano. Il personaggio stesso della Principessa è molto interessante, perché alla fine compare solo nel II e nel III atto, ma nel IV si materializza in una maniera molto forte attraverso la sua vendetta. Una storia di gente di spettacolo che si fonde con intrighi politici e amorosi. In questo quadro è molto interessante il personaggio di Michonnet, un uomo così dolce, una figura ricca di sentimenti e di sensibilità.

Verona personale prove Fabio

E Maurizio come si colloca nella vicenda?

Maurizio è un personaggio semplice nella sua struttura: è un politico, un uomo con delle responsabilità che deve per forza giocare con la diplomazia e con il corteggiamento. Ha la fortuna di essere un bell’uomo, molto corteggiato, il cui fascino conquista anche la regina. Credo che sia un uomo profondamente innamorato, e la casualità vuole che si innamori di una donna di spettacolo. D’altronde abbiamo avuto un caso eclatante che ci ha dimostrato tutto ciò: il Principe Ranieri di Monaco con Grace Kelly.  Le dinamiche tra Maurizio e Adriana sono più o meno le stesse: lui non potrebbe sostenere lo stile di vita di una donna di teatro e quindi lei sarebbe costretta a rinunciare alle scene e non è facile. La vita a volte è come “Sliding Doors”, in cui alla protagonista, Helen (interpretata da Gwineth Paltrow) basta vedersi chiudere le porte della metropolitana per vedere cambiato completamente il proprio destino. L’opera di Cilea è allo stesso modo piena di sottigliezze, tra le quali però emerge per tutta l’opera la coerenza di Maurizio nell’amore per Adriana, tanto che alla fine ritorna da lei per un’ultima volta.

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©G. Lelj

C’è qualche difficoltà musicale o vocale in questo ruolo?

La difficoltà di questo ruolo è la scrittura che è talvolta molto articolata nella parola e che è strutturata su un declamato che non è quello stentoreo tipico del Verismo o dell’ultimo Verdi (Otello), ma è un declamato molto parlato per il quale è necessario spesso sillabare molto su ciascuna parola. Ci sono delle frasi che hanno bisogno di una grande attenzione e di grande comprensione, perché sono necessarie a far capire lo sviluppo della drammaturgia della vicenda. La scrittura musicale gioca molto con piccoli incisi melodici, dialoghi molto fitti, che devono essere resi con assoluta precisione: è il caso dei quattro teatranti (Quinalt, Poisson, Mad.lla Jouvenot, Mad.lla Dangeville) che appaiono nel I e nel IV atto, che rappresentano delle parentesi brillanti nella tragicità della storia e che sono parti difficilissime. La parte di Maurizio ha due bellissimi ariosi inseriti in due duetti, il primo con Adriana e il secondo con la Principessa di Bouillon: “La dolcissima effigie” e “L’anima ho stanca”. Entrambe le pagine dimostrano la capacità di Cilea di tradurre in musica questo profondo senso di malinconia, con frasi musicali bellissime, che sono poi diventate terreno per la grande arte di eccezionali tenori come Aureliano Pertile che ha fatto di queste arie i suoi cavalli di battaglia. Ho avuto la fortuna di studiare questo ruolo con Franco Corelli, che considero il Maurizio di Sassonia di riferimento, che possedeva la vocalità, la fisicità e il carisma per esserne grande interprete. Ho debuttato quest’opera nel 1994 al Teatro Colón di Buenos Aires sotto la direzione del grande Maestro Michelangelo Veltri, che era in quel momento direttore musicale del Colón e che dopo avermi sentito l’anno precedente in “Tosca” mi aveva scelto per interpretare questo ruolo. Mi diceva che gli ricordavo in qualche modo Corelli, per qualche dettaglio vocale e per il fisico alto e slanciato. C’è una bella registrazione che il teatro fece di quell’Adriana, che è facilmente reperibile anche su YouTube. Fu un debutto molto fortunato, che mi portò a cantare molto al Teatro Colón, al quale sono rimasto affezionato e che è uno dei miei teatri preferiti per la bellezza della struttura e la passione del pubblico. Ho un ricordo straordinario del “Mefistofele” che feci lì nel 1999 con Samuel Ramey, e ho ancora nelle orecchie l’entusiasmo del grande pubblico: al teatro Colón ho respirato l’atmosfera di un vero “tempio della lirica”! Mi dispiace non averci ancora cantato dopo il restauro e dopo la crisi che ha attraversato l’Argentina, tuttavia ora è un teatro in grande rilancio in cui vengono giustamente molto valorizzati i talenti locali. Hanno ragione a fare così, perché è giusto avere ospiti quando sono artisti importanti, mentre in caso contrario è assolutamente positivo valorizzare il proprio capitale umano e artistico, in modo da rendere anche gli artisti competitivi sul mercato internazionale. In Italia non funziona quasi mai così e per questo motivo all’estero c’è molta più competitività sotto questo punto di vista. Lo dico senza voler fare polemica, ma credo ci sia stato uno scollamento tra la valorizzazione dei nostri artisti e i nostri teatri, mentre questo dovrebbe essere una priorità in un paese come il nostro che vive di arte, cultura e di bellezza e che dovrebbe essere d’esempio nella gestione di tutto questo.

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©Johannes lfkovits

Abbiamo appena intervistato tuo fratello, il Maestro Marco Armiliato, che dopo tantissimi anni di grande carriera internazionale ha debuttato solo il mese scorso al Teatro alla Scala…

Lui è un esempio proprio di questo. Noi siamo molto attaccati al nostro paese, ma entrambi siamo andati via per una mancata valorizzazione, a quel tempo, dei giovani talenti. All’inizio mi sono state date poche opportunità in Italia e soprattutto puntavano ad utilizzare la mia gioventù e generosità per risolvere situazioni un po’ difficili e spesso mi capitava di cantare senza aver fatto alcuna prova. Ho deciso di andare all’estero a fare la mia gavetta, anche per evitare di fare ruoli troppo pesanti subito. Volevo fare i passaggi giusti, cantando opere come “La Bohème”, “Lucia di Lammermoor”, “Rigoletto”, opere che un tenore deve assolutamente cantare. Non si può cominciare subito cantando i ruoli da tenore drammatico, perché si rischia di diventare tenori “tragici” (ride). Mancherebbe un passaggio che permetterebbe una maturazione vocale e artistica. Non serve però cantare due volte “Rigoletto” per dopo iniziare a cantare forsennatamente “Aida”, ma serve il tempo per crescere. Si deluderebbero le aspettative del pubblico e non si creerebbero quei presupposti per una carriera duratura. L’opera non è come il pop, ha bisogno di tempi diversi. Abbiamo a che fare con musica composta secoli fa, capolavori entrati nella storia che hanno avuto grandi interpreti di riferimento che non vanno mai dimenticati. Oggi credo che non si ascolti più abbastanza quella che è l’eredità del passato.  E’ come se un pittore si mettesse a dipingere senza sapere cosa abbia fatto Giotto o Rembrandt, ovvero la storia dell’arte. Si può andare a volte contro la storia o il passato o la tradizione, ma sempre giustificando il tutto con un atteggiamento costruttivo e con rispetto.

Ritornando a Maurizio, c’è qualcosa che Franco Corelli ti disse e che ti viene in mente mentre canti questo ruolo?

Mi diceva sempre: “Lega, canta dolce!”. Anche se canti aggressivamente devi pensare a cantare dolcemente, perché c’è già l’orchestra che crea l’atmosfera aggressiva. Lui metteva assolutamente in pratica tutto questo e infatti credo che il legato di Corelli, insieme a quello di Gianfranco Cecchele sia stato il più bel legato della generazione precedente alla mia. Fare tutte le note non è e non può essere mai un risultato che soddisfi noi e il pubblico.

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C’è qualche somiglianza tra questo ruolo con altri del verismo, nonostante la particolarità dello stile di Cilea?

Tutti i ruoli di questo repertorio, come Andrea Chènier per esempio, hanno questa profonda bellezza della linea melodica nelle frasi cantate, così come una grande attenzione ai colori. Credo che tutti i personaggi romantici finiscano poi per avere delle caratteristiche comuni. Maurizio di Sassonia nel III atto racconta un evento bellico (“Il russo Mencikoff”) che è un brano completamente diverso da tutto il resto del ruolo. Anche Chènier ha una pagina come “Sì, fui soldato” che mette in luce la sua anima da combattente, ma in quel caso l’affermazione iniziale si scioglie poi in un’elegia e in lirismo ben diverso. Maurizio in quel momento invece fa un po’ il gradasso per accendere l’entusiasmo della gente che si è radunata intorno a lui, e poi non dimentichiamo che entrambe le sue dame, Adriana e la Principessa, lo stanno guardando. E’ un accentratore, anche un po’ esibizionista, ma anche profondamente sentimentale. Chènier e Maurizio hanno in comune questa duplice anima di poeti e di soldati. Credo che il personaggio ideato da Giordano abbia anche in qualche modo influenzato tutti i compositori della Giovane Scuola. Francesco Cilea e Riccardo Zandonai sono i più “aristocratici” tra questi autori e anche la scrittura di Paolo Il Bello in “Francesca da Rimini” ha la stessa forza virile coniugata ad un lirismo estremo: penso a frasi come “Ma le vostre mani toccato m’hanno” dal secondo atto dell’opera. Adriana, Francesca e Chènier sono poi opere che mi riportano ad un vissuto molto intenso anche nella loro esecuzione. L’altro giorno, durante la prova del IV atto di Adriana, sono tornato a viverla in una maniera intensa, con una forza che ha commosso me e i miei colleghi, tra i quali il baritono Alberto Mastromarino, con cui abbiamo cantato diverse volte queste opere. Questa commozione viene certamente, come si può immaginare, anche dalla materializzazione di qualcun altro che non c’è più. Molti dei presenti, guardando la scena che stavamo facendo, si è accorto di questa cosa. Con me questa persona c’è sempre ed è una delle cose che mi porto dentro con tutta la sua forza, ma sono felice oggi della voglia che mi sta tornando di ritornare a cantare, arricchito dalle esperienze che la vita mi ha portato ad affrontare. Sono soprattutto contento di tornare qui a Verona con un’opera così identificativa come “Adriana Lecouvreur”, anche per quello che siamo stati io e Daniela Dessì come coppia.

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Verona è una città in cui hai cantato molto….

Sì, fin dai concerti al Circolo Verdi negli anni’80, dove ho incontrato persone meravigliose, amici di una vita. Io sono di famiglia veronese, gli Armiliato sono presenti solo a Verona e dintorni, tuttavia il mio bisnonno si dovette allontanare da questa città per un problema di salute e scelse Genova per il mare. L’unica persona che è rimasta a Verona, era la sua figlia minore, troppo piccola per affrontare questo spostamento, che venne affidata a degli zii che l’hanno cresciuta. Io sono cresciuto con il mito della “zia di Verona” e l’ho finalmente conosciuta all’età di sedici anni. Da allora sono venuto tutte le estati qui a Verona e ho passato tante indimenticabili serate all’Arena, tra cui ricordo l’Ernani con Franco Corelli e il debutto di Luciano Pavarotti ne Un Ballo in Maschera, le tante recite di Carlo Bergonzi e l’Aida con il soprano genovese Luisa Maragliano, che è poi stata una delle mie maestre. Verona mi ha sempre fatto sentire a casa. Ho debuttato in Arena nel 1999 nella celebre Aida con la regia di Pier Luigi Pizzi, che ho ripreso anche in qualche stagione successiva. Ho fatto anche l’Aida del 1913 con la regia di Gianfranco De Bosio, di cui non potrò mai dimenticare la ripresa del 2009 con Daniela e diretta da Daniel Oren. De Bosio ci ha lasciato anche una bella dedica su un libretto, ringraziandoci di aver dato un senso profondo al suo lavoro con le nostre interpretazioni. In mezzo a queste due “Aida”, ho cantato “Madama Butterfly”, “Tosca” e “Carmen”.

C’è un ruolo che ti piacerebbe cantare in Arena in questo momento?

Penso proprio Don José della “Carmen” che è un’opera identificativa dell’Arena ed è sempre un piacere cantarla. Mi dispiace non aver mai fatto “Turandot” qui, perché anche quello di Calaf è un ruolo che ho cantato spesso (in Italia una sola volta alla riapertura del Teatro Petruzzelli di Bari). L’ho debuttato nel 1995, sotto la direzione di mio fratello Marco, a Cincinnati, che è una grande realtà musicale estiva, dove tantissimi grandi artisti hanno fatto il loro debutto (James Levine, Richard Tucker e tanti altri). Abbiamo ricevuto per quel debutto un premio tutti e due per il miglior debutto della stagione. Se penso alle opere areniane monumentali penso a “Nabucco”, ma il ruolo di Ismaele non è così soddisfacente per un tenore, anche se ci sono stati grandi cantanti che hanno fatto delle escursioni in questo ruolo talvolta.

Armiliato-La Forza del Destino-Vienna-2010©Michael Pöhn
©Michael Pöhn

Hai avuto la possibilità di cantare tutti i ruoli che ogni tenore sogna di affrontare…quali sono stati i tuoi modelli?

Ho avuto la fortuna di fare quasi tutto, le opere che sognavo e con le quali sono cresciuto dall’età di quattro anni, quando ho cominciato ad ascoltare l’opera. Sono cresciuto ammirando Beniamino Gigli che mi ha fatto innamorare del canto. Sono molto legato alla famiglia Gigli e custodisco gelosamente dei preziosi cimeli che mi sono stati donati: la spada de “Il Trovatore”, lo spadino de “La Favorita”, il saio de “La forza del destino” e le scarpe della “Manon Lescaut”, oltre che alcune fotografie. Sono diventato anche cittadino onorario di Recanati, proprio per la mia devozione all’insegnamento di Gigli e alla divulgazione dell’importanza della sua figura come cantante e come uomo. Trovo ci sia nel nostro paese una mancanza anche in questo senso, non si ricordano abbastanza personaggi come Caruso o Gigli o lo stesso Corelli e Del Monaco che hanno portato l’Italia nel mondo. Gigli è stato una delle personalità più straordinarie, non solo dal punto di vista artistico. Vocalmente è ovviamente un modello. Tralasciando talune peculiarità, facenti parte del gusto dell’epoca, quando si ascolta “Come un bel dì di maggio” cantato da Gigli, grazie alla sua comunicatività viene alla luce tutta la malinconia di questa musica e si hanno delle emozioni irripetibili, ma assolutamente familiari. Ho notato, sperimentando con le canzoni del tango, di cui mi sono innamorato anni fa, e che prevedono uno straordinario connubio tra musica e parola, che attraverso quest’ultima si accendono delle sensazioni straordinarie in chi ascolta…

E’ un po’ il concetto verdiano della “parola scenica”…

Sì, ed è anche quello che dice Adriana: “Io son l’umile ancella del genio creator: ei m’offre la favella, io la diffondo ai cor…”. Occorre per farlo la grande parola, la grande musica e l’interprete che riesca a trasmetterla al pubblico. La nostra funzione è quella di far continuare ad innamorare le persone di quello che è il bello. La sintesi di tutto quello che stiamo dicendo credo sia che la bellezza ha bisogno di essere rivalutata nel modo più corretto. Non possiamo valutare tutto come bello, poiché questa definizione spetta a qualcosa le cui regole armoniche stanno al di sopra di ciò che è nella normalità. Viviamo in un mondo diviso tra il sole e la luna, il caldo e il freddo, in un continuo dualismo: esiste quindi il bello e il brutto. Il bello non ha a che fare con il successo, è un valore e come tale deve essere valutato e insegnato.

Fabio Armiliato-366

Per quanto riguarda la crescita del nuovo pubblico, cosa potrebbero fare i teatri?

Molte fondazioni vedo che stanno facendo in questo momento un grande lavoro per coinvolgere le scuole nella vita del teatro. Io li coinvolgerei anche di più, magari facendoli vedere ancora più da vicino il mondo del teatro e degli artisti. Penso che si debba insegnare e far capire sempre la magia del teatro, che è un incanto che non deve mai rompersi. Oggi sicuramente gli artisti devono avvicinarsi di più al pubblico, ma ci vuole sempre quella forma di rispettoso mistero verso il teatro e i suoi personaggi. Quello che manca è il coinvolgimento delle famiglie, ma questo è un problema generale, poiché si è delegato molto alla scuola il compito di educare i ragazzi. Bisognerebbe fare un lavoro che vedesse sempre di più la collaborazione tra la scuola e la famiglia, riappropriandosi in questo modo di un mondo, quello del teatro e dell’arte, che ci appartiene profondamente. I teatri potrebbero creare anche un coinvolgimento più attivo degli artisti più giovani, magari sviluppando l’idea dei laboratori/accademie legati al teatro. Si dovrebbe ritornare a quella sensazione di laboratorio che è insita nell’opera lirica “artigianale”: non solo per quanto riguarda le voci, ma anche per le maestranze scenotecniche. Si dovrebbe fare formazione anche sui registi, insegnando loro che non c’è bisogno sempre di essere protagonisti all’eccesso (ride). La modernità è bellissima, ma il compito del teatro è anche quello di educare, e su questo va posta molta attenzione: non si dovrebbe MAI disorientare il pubblico. Il teatro è nato, già dalle sue origini, anche per l’educazione sia intellettuale che sociale, perché nello scambio umano che avviene tra artisti e pubblico ci si arricchisce. Questa riflessione oggi va fatta, perché il teatro viene spesso utilizzato invece a proprio uso e consumo, perdendo totalmente la sua funzione sociale ed educativa. Dobbiamo ritrovare l’essenza del teatro, in modo tale che valga anche la pena di sostenerlo economicamente da parte delle istituzioni. Se tradisci lo spirito della socialità che insito nel concetto di teatro, la gente crede di poterne fare a meno, e non è così, tant’è che ogni città italiana e anche i comuni più piccoli hanno tutti una chiesa e un teatro. La televisione o il cinema che sono alla portata di tutti, sono solo dei surrogati, che non possono sostituire quella che è la condivisione umana del teatro, che come tale è impagabile: osservare insieme uno spettacolo, condividere le proprie opinioni nel foyer. Dall’altra parte, non c’è neanche bisogno di produzioni faraoniche, forse solo all’Arena, dove la spettacolarità del luogo lo impone. Torniamo a valorizzare soprattutto il capitale artistico delle voci: una volta si andava a teatro per sentire e vedere i cantanti, il cui nome giganteggiava sulle locandine.

Ricordiamo i tuoi prossimi impegni…

Dopo questa Adriana veronese, andrò a Bunos Aires, protagonista di un documentario sulla misteriosa vita del musicista italo-argentino Rodolfo Zanni e poi a Catanzaro per Madama Butterfly ed a Craiova, in Romania, per “Pagliacci” per la direzione del maestro Filippo Arlia con cui ho ripreso questo ultimo titolo proprio lo scorso anno al Festival Leoncavallo. Nel frattempo, mi dedico sempre al mio progetto “Recital CanTango” che vede uniti l’opera e il tango. La chiave di lettura di questo progetto è il profondo legame tra queste due forme d’arte, dal momento che Gardel fu allievo di Tito Schipa, ma non avendo le qualità per diventare un cantante d’opera, portò la cultura del melodramma nel mondo del tango. Riprenderò successivamente ancora “Pagliacci” a Parma, quest’estate, per poi esibirmi a Varna, in Bulgaria. Ancora con “Pagliacci” ritornerò nella prossima stagione in USA, a Portland, per una nuova produzione del capolavoro di Leoncavallo. Canio era un ruolo che prima non mi piaceva molto cantare per il suo carattere (neanche Corelli lo amava molto), ma gli si possono dare anche delle letture diverse più affascinanti. Quasi tutti hanno un’idea di un personaggio di uomo maturo e non fisicamente attraente: Zeffirelli mi diceva con grande gentilezza e carineria che ero quasi sprecato in un ruolo come quello a causa dell’eleganza della mia figura. Amerei invece debuttare “La dama di picche” di Cajkovskij, poiché il ruolo di Hermann è complesso e interessantissimo, tanto da essere considerato l’Otello russo. Per affrontarlo bisognerebbe avere padronanza anche della lingua, quindi devo mettermi a studiare il russo (ride)! Mi chiedono spesso, per esempio, perché non affronto ruoli tedeschi, ma credo che sia assolutamente necessario saper capire il testo in profondità e poi avere una cultura diversa e specifica per affrontare i titoli di Wagner o di Strauss. Ho debuttato Danilo ne “La vedova allegra”, ma in italiano (ride): è un ruolo brillante in cui mi sono divertito moltissimo e che mi piacerebbe riprendere. La cosa importante è che mi è tornata la voglia di cantare e di mettermi in gioco. Devo ringraziare anche Cecilia Gasdia per questo invito a tornare a Verona, arrivato dopo una bella produzione della rarissima “” di Mascagni (operetta solo sulla carta, perché vocalmente impegnativa) a Livorno. E’ iniziata così la mia terza vita e carriera. Ho vissuto una prima vita artistica dall’84 (anno del mio debutto) al ’99, anni in cui ho cantato tantissime recite soprattutto al Metropolitan con molte serate sold-out (Fedora, Aida, Cavalleria rusticana, Don Carlo, Tosca). Nel 2000 ho incontrato Daniela e abbiamo trovato la maniera di unire due carriere importanti per creare qualcosa di diverso e più stimolante per entrambi, interpretando moltissime coppie di amanti nell’opera. Si è creata tra noi una grande alchimia vocale e umana e gli stessi teatri avevano programmato per noi già tre anni di lavoro insieme quando è iniziata la nostra storia d’amore. Questo periodo si è purtroppo chiuso con la scomparsa di Daniela, ma oggi sento di nuovo di poter rinascere, portando con me tutta questa esperienza e spero di riuscire a donare sempre al pubblico un esempio di passione per questo lavoro e di grande professionalità, sperando anche di essere contagioso per gli altri!

Grazie a Fabio Armiliato e In bocca al lupo!

Francesco Lodola

 

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