Il più celebre dei titolo verdiani nel capoluogo emiliano convince a metà: deludente la regia di Andrea Bernard, migliore la parte musicale.
Opera tra le più rappresentate al mondo, “La Traviata” risulta un banco di prova dalle innumerevoli insidie per i registi, costretti a fare i conti con un dato di fatto: quest’opera l’abbiamo già vista in ogni modo, possibile ed immaginabile.
Ed ecco che allora, forse in preda alla necessità di risultare originali nella lettura che se ne fa, saltano fuori degli errori madornali.

E’ il caso di questa nuova produzione targata Teatro Comunale di Bologna e Teatro Regio di Parma, regia, scene e luci di Andrea Bernard. Sia chiaro, il problema non è certo l’aver spostato ai nostri giorni l’azione né tanto meno vi sono elementi che destano alcuna forma di scandalo o stupore: ciò che ci rende come minimo perplessi è la scelta di trasformare Violetta nella titolare di una Casa d’Aste, luogo in cui si svolge l’intero primo atto. Viene da chiedersi come può, così, reggere la trama e la drammaturgia dell’Opera ma anche e soprattutto il significato intero e profondo di denuncia sociale verso una certa ipocrisia borghese attorno cui ruota la vicenda e che costituisce il cuore del lavoro del Maestro. “Una puttana deve essere sempre una puttana!” scriveva (testuali parole!) nel 1854 da Parigi Giuseppe Verdi a Vincenzo Luccardi. E se talvolta si dice che un certo modo di rappresentare “La Traviata” tipico di un altro tempo, in cui Violetta pare più una nobildonna dai modi nobili ed eleganti, risulta lontano dalla realtà, beh, che dire di questa scelta “moderna”?

Se la scelta di fondo è dunque infelice, non va particolarmente meglio per la regia in sé che vede un susseguirsi di trovate già viste, riviste e copiate che non apportano alcun elemento di originalità e risultano anzi talvolta stucchevolmente banali, come quando, sulla seconda parte di “Di Provenza il Mar, il Suol” al posto di Alfredo entra in scena un bambino, “ricordo” del bambino che fu.
A completare il tutto vi sono le scarne scene di Alberto Beltrame e i costumi di Elena Beccaro che ci sono parsi particolarmente sgradevoli (addosso al coro soprattutto) e di fattura grossolana.
I movimenti coreografici di Marta Negrini, eseguiti dalla Scuola di Teatro di Bologna Alessandra Galante Garrone si inseriscono in modo omogeneo al resto dello spettacolo.

Accanto ad un sì infausto “scenario”, la parte musicale si difende in ben altra maniera, pur risultandone inevitabilmente inficiata nella resa complessiva.
Il direttore Renato Palumbo, alla testa dell’Orchestra del Teatro Comunale, coordina con efficacia buca e palcoscenico e restituisce al pubblico una lettura della partitura personale e accurata, caratterizzata talvolta da improvvise accelerate (forse un po’ eccessive) e da qualche leggerezza espressiva ma dove non mancano scelte raffinate e di grande gusto.
Il coro si disimpegna con la consueta professionalità sotto la guida del Maestro Alberto Malazzi.

Per quanto riguarda gli interpreti, Mariangela Sicilia, nei panni di Violetta, si conferma artista di grande spessore, capace di mille sfaccettature vocali, mezze voci e sfumature emesse con voce limpida e di bel colore, specie nel secondo e nel terzo atto, senza pero’ sfigurare anche nelle agilità richieste nel primo atto. Ella convince pienamente anche come attrice, facendo trasparire tutto il carico di sofferenza e i diversi stati d’animo in maniera assai espressiva.

Alfredo è il giovane Francesco Castoro, un po’ ingessato scenicamente e ancora talvolta un po’ acerbo nell’interpretazione e nel fraseggio ma dalla voce sonora e ben proiettata, omogeneo nei diversi registri.
Eccellente la prova di Simone Del Savio, come Giorgio. Solidissimo vocalmente, il suo è un Germont autorevole e fermo ma che sa concedersi a momenti di paterna emotività modulando la voce e la propria presenza scenica come un vero artista sa fare.

Assai gradevole Aloisa Aisemberg come Flora, corrette le prove di Marìa Caballero (Annina), Rosolino Claudio Cardile (Gastone), Paolo Marchini (Barone Douphol) e Francesco Leone (Dottor Grenvil). Non particolarmente piacevole all’ascolto è risultato invece Riccardo Fioratti (Marchese d’Obigny). Completano il cast Enrico Picinni Leopardi (Giuseppe), Sandro Pucci (un Commissario) e Raffaele Costantini (un domestico di Flora).
Al termine applausi convinti del pubblico per la parte musicale e vocale.
Grigorij Filippo Calcagno,
Bologna, 5 maggio 2019