La magia dell’Arena è anche quando il Conte di Luna ne “Il Trovatore” intona una delle sue frasi più belle (sì, il libretto di Cammarano è un capolavoro), “Sperda il sole d’un suo sguardo la tempesta del mio cor!”, e il cielo si intona ai suoi moti vibrando di abbaglianti saette.
E con questo cielo tempestoso, che ha fruttato solo una piccola interruzione per poche gocce di pioggia, si è chiusa l’avventura del Trovatore delle stelle.
Siamo rimasti ancora una volta ammirati, commossi dallo spettacolo di Franco Zeffirelli, un capolavoro di macchina teatrale, suggestiva, densa di mille cromie e sfumature. L’apertura della grande cappella gotica nella scena del finale II, lascia sempre a bocca aperta e sospirando per ammirazione profonda.

Pier Giorgio Morandi dirigeva con eleganza e buona capacità di accompagnamento, nonostante qualche sporadico scollamento. Tuttavia al suo Trovatore manca il fuoco ma anche la luna: tutte le dinamiche sono appiattite e le tinte sono spesso monocromatiche. Nonostante questo le prova dell’orchestra dell’Arena di Verona è di grande livello e ancora di più quella del coro diretto da Vito Lombardi.
Questo Trovatore infatti pare risolversi tutto nel canto, a partire da Dario Giorgelè (un vecchio zingaro), Antonello Ceron (un messo) e gli eccellenti Elena Borin (Ines) e Carlo Bosi (Ruiz).
Riccardo Fassi è un Ferrando di bell’accento, vocalità pulita e tecnica scaltrita che gli permette di venire a capo delle infide agilità del racconto del I atto.

Alberto Gazale è stato il primo interprete del Conte di Luna alla nascita di questo allestimento nel 2001, e a distanza di quasi due decenni dipinge ancora un personaggio affascinante per vocalità e presenza teatrale, gestendo con nobile protervia la difficile scrittura del ruolo.

Murat Karahan è il Manrico dei sogni, tanto eroico quanto romantico: voce grandissima, bellissima, estesissima e che non teme nessun ostacolo e lo supera grazie ad una tecnica impeccabile. Il tenore, in assoluto stato di grazia, ha reso tutte le sfumature di questo personaggio: il diminuendo su “abbrividir” in “Mal reggendo all’aspro assalto” e il successivo crescendo, la tenerezza filiale di “alcuno, ti rassicura, qui non volge” nell’ultimo atto. Siamo rimasti senza fiato però davanti al canto di “Ah! sì, ben mio, coll’essere…” con fiati prodigiosi e una linea vocale da autentico belcantista, per di più seguito da una pira a dir poco entusiasmante.

Violeta Urmana è una delle più grandi Azucena di oggi e non esageriamo se diciamo di tutti i tempi. La voce possente, bellissima, visceralmente espressiva e la presenza superba e magnetica. Per descrivere la sua grandezza basterebbe soltanto prendere una frase, “Troveranno un cadavere muto, gelido!…anzi uno scheletro!” e in queste poche parole, nel modo di scandire le consonanti, si troverà tutto il senso della morte, della vendetta e del destino e quella “gioia feroce” che Verdi scrive in partitura. Questo vuol dire essere un’artista e la Urmana è un’artista immensa.

Anna Pirozzi ci regala finalmente la gioia di sentire una Leonora cantata all’italiana, con un mezzo vocale imponente e saldo dal grave fino all’acuto (ripristinando anche la puntatura al re bemolle sovracuto nel terzetto con tenore e baritono del I atto). Oltre alla grande aria del IV atto (“D’amor sull’ali rosee”) e allo straordinario finale, il momento più emozionante della sua interpretazione è stato il grande cantabile della scena del convento con quel paradisiaco filato sul la bequadro di “Può fra gli eletti”.
Al termine un calorosissimo successo.
Francesco Lodola
Verona, 26 luglio 2019