Aida è il titolo areniano per eccellenza, l’opera più amata e attesa, l’opera con cui ogni direttore che giunge in Arena sogna di misurarsi. Dopo il debutto dello scorso anno con “Carmen”, il Maestro Francesco Ivan Ciampa si è confrontato per la prima volta in questo luogo magico con il capolavoro verdiano e proprio in occasione di queste applauditissime recite, abbiamo avuto il grandissimo piacere di intervistarlo.

Quest’anno ti sei cimentato con la regina delle estati all’Arena di Verona, Aida. Qual è il tuo rapporto con questo titolo?
Avevo già debuttato Aida a Salerno, con la grande Giovanna Casolla nel ruolo di Amneris. Fu già in quell’occasione un’esperienza straordinaria, però con opera come questa, più la frequenti e più scopri e riscopri dei particolari che prima non avevi notato. E’ sempre emozionante riaprire una partitura e trovare qualche angolo ancora inesplorato…è come una miniera dove ogni volta scavando trovi nuovi diamanti. Non arriverà mai il momento in cui sentirò di possedere completamente un’opera…in questo sta la magia del mio lavoro. Quando arriva il momento in cui credi di aver afferrato l’intera essenza di un’opera, quello è il momento in cui devi smettere di fare questo mestiere. La ricerca e la curiosità, il mettersi sempre in gioco all’infinito sono alla base del mio lavoro. E’ come essere davanti ad uno specchio e andare alla ricerca di sé stessi, trovando il proprio modo di esprimersi e di comunicare, senza imitare nessuno. E’ molto difficile questo, perché dopo secoli di interpretazioni da parte di giganti che hanno fatto la storia della musica, arrivi tu e devi aggiungere un tuo piccolo e originale tassello a questa storia. Il peso storico si fa sentire soprattutto con Aida in Arena: questa è l’opera dell’Arena, è il titolo che ha reso possibile la nascita di questo festival straordinario. Aida è al centro di questa macchina quasi “infernale” (più che altro per il caldo – ride) che è l’immenso meccanismo teatrale areniano.

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©Roberto Ricci

Aida è un’opera “intima” (così spesso si dice)….questo pesa sulla resa dell’opera in uno spazio grande come l’Arena?
Aida è un’opera intima, è vero, però in lei convive anche la dimensione del grandioso. Dirigendo Aida non puoi non considerare la scena del trionfo, che è un’esplosione di maestosità e grandezza. Spesso si dice che passato il trionfo la vera essenza di Aida si trova nel III e nel IV atto. Questo è assolutamente vero, ma c’è anche tutta la musica che li precede, e non può essere trascurata.
Anche il finale dell’opera può essere considerato grandioso in qualche mondo…visto il coinvolgimento di coro, mezzosoprano (Amneris) e i due protagonisti nella tomba…
Sì, lo è, ma rappresenta la grandiosità del mondo più intimo. Il finale di Aida è l’esplosione dell’amore nel suo momento più sacro, in cui due amanti si ricongiungono per morire insieme. Dobbiamo cercare di immedesimarci nei personaggi, d’altronde l’opera è teatro: immaginiamo di essere con l’amore della nostra, di sapere di dover morire e in quell’amore si trova la forza per affrontare il sacro passo. Nella sua intimità questo momento è grandioso forse anche più del trionfo. Per Aida si parla di intimità anche per le sonorità che Verdi riesce a trovare, senza essere mai stato in Egitto…la stessa cosa per Puccini che non ha mai visitato né la Cina, né il Giappone: sono uomini che avevano una sensibilità sconfinata, soprattutto per la loro epoca dove le comunicazioni non permettevano di viaggiare anche da casa propria attraverso il web. Le sonorità che Verdi crea per Aida sono frutto di letture, di ricerche e dell’idea che egli stesso si è fatto dell’Egitto e delle sue atmosfere.

All’epoca poi anche l’Egittologia era praticamente agli inizi della sua storia…
Sì, appunto. Verdi ha creato qualcosa di straordinario e geniale.

Torniamo all’Arena: questo è il tuo secondo anno qui…le emozioni sono sempre le stesse?
Dirigere in Arena fa provare sempre delle emozioni molto forti. A parte la bellezza del luogo e dell’opera, scendere quella discesa per arrivare sul podio mi dà sempre la sensazione di entrare dentro un altro mondo, un mondo completamente diverso. Questo è un teatro diverso da tutti gli altri…c’è una sacralità che a parole non si può spiegare. Entrando in un teatro al chiuso sai di essere in un tempio, ma spesso questo tempio è d’élite, mentre l’Arena abbraccia la gente, il popolo diciamo. Spesso penso che qui chi mi sta ascoltando è all’opera per la prima volta e non conosce Aida, e quindi il mio compito è di trascinarlo e di coinvolgerlo, cosi che magari anche una sola persona su 13mila si appassiona all’opera e poi continuerà a frequentarla. Il lavoro qui è ancora più grande e ha una funzione ancora più importante. L’artista questo deve fare nella sua vita, far entrare gli altri nell’anima della musica, attraverso la propria anima di interprete.
Questo ruolo può essere scomodo?
Dal punto di vista umano non trovo che questo ruolo sia scomodo, anzi. Io nasco da una famiglia di musicisti, mio padre dirigeva anche le bande in Puglia e io ho imparato da lui che anche una piazza dove ci sono i venditori di noccioline, le luminarie, i rumori di una festa patronale, può diventare la più bella e la più importante sala da concerto del mondo. Dipende però dal tuo approccio. Io ho dei ricordi bellissimi di quelle serate: mi ricordo i vecchietti che parlavano e si sedevano in piazza per ascoltare le riduzioni operistiche per banda e l’atmosfera che si respirava, io, piccolo, seduto vicino all’ottavino. Così è cominciata la mia storia, e da quei ricordi ho imparato qual è il vero ruolo del musicista e dell’artista.
Bisognerebbe forse tornare a quella dimensione della piazza…
Sì, erano la linfa vitale della trasmissione popolare della musica. In Puglia c’è ancora oggi una tradizione fortissima. Dalle feste di piazza ho imparato come coinvolgere un pubblico che non conosce quello che sta ascoltando.

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©Foto Ennevi/Fondazione Arena di Verona

Torniamo però alle difficoltà dell’Arena…
In Arena la difficoltà è la gestione di masse enormi, numerosissime. Ho appena diretto “Macbeth” a Macerata e devo dire che la condizione è più semplice, poiché dal punto di vista dello spazio hai una dispersione più in lunghezza che non in profondità. L’Arena però è unica, non si può paragonare a qualsiasi altro posto al mondo, è davvero il Tempio dell’arte per il popolo, per tutti i tipi di pubblico.
Il tema del popolo e del popolare è anche uno dei cardini de “La Forza del destino”, opera con cui hai ottenuto un enorme successo quest’inverno nel circuito emiliano, una produzione entrata già negli annali…Un’opera verdiana complessa, composta da tanti episodi diversi tra loro per temi e stile…
E’ una delle opere verdiane più belle, e la famosa leggenda della sfortuna che si accompagna ad essa è una sciocchezza. Mi è stato anche chiesto in alcune interviste, ma io trovo una stupidaggine il pensare che un’opera così bella possa essere accompagnata da una tale fama. E’ un capolavoro dalla prima all’ultima nota. L’approccio alle opere di Verdi è sempre molto difficile, perché c’è un rapporto del tutto particolare tra parola e suono, tra sillaba e nota. Amo quest’opera e i suoi personaggi: Padre Guardiano, Melitone…Verdi in quest’opera è arrivato a delle altezze incredibili, come in tutte le opere. Io non riesco a dire c’è qualche opera di Verdi che non è a quel livello di bellezza, anche Alzira è bellissima, l’opera più bistrattata di tutto il catalogo verdiano.

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©Roberto Ricci

Le tenebre della forza del destino e le tenebre di Macbeth hanno qualche somiglianza?
Macbeth è un’opera ovviamente ancora più cupa. Avendo appena diretto Macbeth ne sono ancora galvanizzato: considerato il momento in cui l’ha scritta, agli inizi della sua carriera (il titolo successivo sarà “I Masnadieri”), eppure è già geniale, c’è già tutta la forza di Verdi. Il teatro di Shakespeare poi dona una forza ancora più intensa a questo titolo, unita al genio di Verdi nel creare le situazioni musicali e drammatiche come quelle delle streghe. E’ un’opera che sa di ruggine. Ogni opera di Verdi ha un suo colore, una sua tinta.
Qual è il colore di Aida?
Ci stavo pensando in questi giorni. In Macbeth il color ruggine è proprio evidente ed è la spinta che ti fa andare a cercare anche nelle altre opere un colore che le caratterizza. In Aida viene facile dire che il colore sia il giallo, quello della sabbia, però io ci vedo anche tonalità più tenui, l’azzurro (indifferentemente dai cieli azzurri del III atto).
C’è l’acqua del Nilo dentro Aida…
Sì, si sente l’acqua di fiume, come in Boccanegra Verdi è riuscito a ricreare il mare nella musica. Il suo rapporto con la musica “descrittiva” è stupendo. Il mare di Boccanegra è diverso dall’acqua del fiume di Aida. E’ straordinario questo rapporto tra il compositore e la natura. Dopo aver diretto Aida c’è sempre una frase, una linea musicale che mi rimane in testa per giorni, ed è “Si schiude il ciel”. Aida e Radames cantano la stessa melodia, la prima volta lei, poi lui, poi all’unisono e alla fine cantano entrambi alla stessa altezza…sono uniti anche prima di morire. Vedere quelle note, scritte in quel modo, è come guardare un quadro, e io non riesco a privarmi dell’emozione di osservare questo capolavoro mentre dirigo…ne ho bisogno, mi stimola.

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©Roberto Ricci

Di questo approccio anche visuale ne parlammo anche per “Carmen” lo scorso anno…anche per Aida e per Forza ti sei creato delle “suggestioni” visuali, una tua iconografia?
Per Aida devo sinceramente dire di no, mentre per Forza del destino assolutamente sì. Sono andato a Piacenza, alla Basilica di Cortemaggiore, per vedere La vergine degli angeli, la pala che Verdi andava ad osservare e che pare lo abbia ispirato per quella miracolosa scena che chiude il II atto dell’opera. In Forza ritrovi tanta storia pittorica: Caravaggio su tutti. La religione si percepisce fortemente in questa musica, perché pur essendo Verdi un uomo laico, aveva un rispetto per il divino. Non lo faceva soltanto per avere un’apparenza rispettabile, soprattutto davanti alla censura che tanto lo aveva criticato per la scelta dei soggetti, ma perché dentro di sé conservava un intimo rispetto per la religione e soprattutto per la sacralità. Lo vediamo nel Requiem, un requiem diverso da tutti gli altri, dove il paradiso non si vede mai dall’inizio alla fine, solo nell’ultimo accordo, in Do maggiore. Per tutto il pezzo lui mostra il viaggio dell’anima attraverso l’inferno e il purgatorio, per poi arrivare all’ultima nota a mostrarti la redenzione, la pulizia finale dell’anima sulla soglia della porta del paradiso. E’ un Requiem assolutamente dantesco. Questo ti fa capire chi era Verdi, non un uomo semplice, ma un artista riflessivo e sempre alla ricerca di qualcosa che stimolasse il suo genio.
C’è un parallelismo tra il finale della Forza del destino e quello di Aida? E quali sono le differenze?
Sì, assolutamente. Ovviamente parliamo del finale di Forza della versione di Milano del 1869, poiché nella versione di San Pietroburgo era molto diverso. La differenza iniziale è il numero dei personaggi in scena, in Forza sono tre, mentre in Aida sono pure in tre ma il centro rimangono Aida e Radames. Entrambe le opere finiscono con un tremolo di note acutissime, ma mentre nella Forza sono note senza intensità, spente, in Aida diventano trasfigurazione, “Si schiude il ciel” è una frase di speranza, quasi un’assunzione in cielo. Nella Forza la morte giunge più violenta, e Padre Guardiano canta delle frasi ieratiche e severe come “Non imprecare, umiliati…”. Una cosa che mi lascia sempre commosso è l’uso dei timpani: in molte opere Verdi non utilizza il rullo dei timpani finale, elemento che aiuta anche a sostenere la bellezza e la rotondità del suono, mentre in quelle in cui si finisce nel piano, nella morte più assorta (Simon Boccanegra, Aida e anche Requiem), lo scrive e lo fa con cognizione di causa, è un sussulto dell’anima, il respiro estremo. Queste sono cose che purtroppo scopri solo vedendole sulla partitura e facendole, guardando però la partitura in modo profondo, al di là delle note.

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©Roberto Ricci

L’altro debutto di questa stagione è stata Tosca…un’altra opera dove la religione ha un ruolo importante…
Tosca è forse la prima opera che ho sentito nella mia vita e debuttarla è stata un’emozione fortissima. Conosco a memoria la celebre edizione discografica con la Callas, Di Stefano e Gobbi, diretti da Victor de Sabata. E proprio per de Sabata e per quella Tosca, uno dei miei secondi nomi è Victor. Ho avuto la fortuna di debuttare quest’opera con due magnifici cantanti, Fabio Sartori e Ambrogio Maestri, interpreti di grande esperienza con i quali è anche un arricchimento poter lavorare. Dirigere a Las Palmas è poi veramente una gioia, perché il pubblico dimostra una grande passione per l’opera, un amore per le voci e per la musica, come quello dei pubblici italiani di trent’anni fa. Noi abbiamo perso un po’ questo calore, dovremmo tornare ad andare in teatro con la pancia. Oggi i nostri teatri sono spesso legati all’élite e non sempre questo fa bene all’arte. C’è sempre più confusione e distanza tra il mondo reale e quello che si va a rappresentare, mentre Verdi e Puccini hanno creato quelle opere prendendo ispirazione da noi, da uomini e donne. Mi piace molto l’idea, per esempio, del Teatro dell’Opera di Roma dell’OperaCamion…penso sia straordinario portare l’opera a chi magari non l’ha mai vista e che finalmente ha la possibilità di conoscerla. Sono importanti operazioni di questo genere.
Una volta forse la realtà dell’opera lirica era più ramificata, tutti i paesi, anche i più piccoli, avevano un teatro funzionante…
Noi stessi facciamo l’errore di chiuderci. Per questa cosa devo ringraziare Beatrice, la mia compagna, che è una cantante e musicista jazz, la quale mi ha introdotto e fatto entrare nel suo mondo, facendomi capire anche il loro approccio che deriva prima di tutto dal piacere e dalla gioia di “fare” musica, unito ovviamente al grande studio e alla grande concentrazione. Il nostro spirito nel fare l’opera e nell’andare all’opera dovrebbe essere più simile a questo, come d’altronde lo era nel passato. Oggi chi non fa errori o chi ne fa meno è favoloso: a me non interessano gli errori, mi piace anche rischiare pur di fare qualcosa di emozionante per il pubblico, a costo anche di sbagliare o di non riuscire. Beethoven diceva che: “suonare una nota sbagliata è insignificante; suonare senza passione è imperdonabile”. Non vuol dire che dobbiamo sbagliare note, ma non dobbiamo dimenticare che ognuno di quei segni ha una sua vita, un suo valore.
Un’opera che non hai mai diretto e che in questo momento ti sentiresti di prenderti il rischio di affrontare?
Don Carlo! E’ un’opera che sogno da sempre e speriamo capiti presto. L’altra opera è “La fanciulla del West” e sarebbe bellissimo dirigerla anche in Arena! Mi piacerebbe dirigere anche Macbeth qui! Chissà!

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©Roberto Ricci

Sei uno dei direttori d’orchestra più attivi sui social…Quanto è importante nel mondo della musica attuale?
Non riesco ad occuparmi sempre direttamente dei social, però penso sia molto importante per tenere un rapporto vivo e diretto con il pubblico. Possono essere anche strumenti per avvicinare un nuovo pubblico, però mantenendo un’eleganza di fondo. Il problema si pone soprattutto riguardo ai contenuti da pubblicare e qui scatta la confusione spesso. Dovrebbero essere vissuti con il giusto peso. Quello che penso è che però non mi interessa essere famoso, non è il mio obiettivo e non lo dovrebbe essere mai. Spesso i giovani artisti confondono le cose e fanno della fama la loro ambizione finale.
Come si sarebbero comportati Verdi o Puccini con i social?
Sicuramente avrebbero scritto molte parolacce (ride)! Magari ci sono già dei compositori che in questo momento nessuno sta considerando e che poi quando moriranno ci troveremo ad eseguire la loro musica e a utilizzare i loro profili social come testimonianza e spunto per le nostre interpretazioni. Puccini lo avrei visto su Instagram, i selfie con il sigaro o con le macchine…lui è sempre stato un innovativo, curioso del nuovo.
Prossimi debutti all’orizzonte…
Prossimamente debutterò alla Royal Opera House di Londra e alla Bayerische Staatsoper di Monaco. Come titoli invece debutterò “Jérusalem” a Bilbao. Tra agosto e ottobre dirigerò “Nabucco” al Festival Verdi di Parma e “Il Barbiere di Siviglia” alla Fenice di Venezia.

Grazie al Maestro Francesco Ivan Ciampa e In bocca al lupo!

Francesco Lodola

 

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