Carmen è stata per anni la regina dell’Arena di Verona accanto ad Aida. Così non è più visto che il pubblico pare essersi disamorato di quest’opera. La responsabilità principale è del deludente allestimento di Hugo de Ana che lo scorso anno ha inaugurato il Festival e che è stato riproposto durante questa stagione. Si tratta di uno spettacolo spento, fatto di idee già viste (anche in Arena) e di alcuni colpi di genio appena sbozzati. La cornice dell’Arena massacra il quadro, opera minore e mal riuscita di un grande “pittore”. Molti criticavano la Carmen zefirelliana per l’impianto sceno-coreografico imponente, malevolmente definito “circense”. Tuttavia in quella Carmen il quadro entrava in simbiosi con le pietre areniane e si respirava l’autentico spirito popolare del capolavoro di Bizet, il sapore ispanico (si, esiste, non è una fantasia). C’era sia l’aspetto da “cartolina” ma c’era anche il sangue, la carne. Speriamo sinceramente rivederla presto per poter tornare a gioire di cotanta ricchezza e bellezza.

A recuperare bastava la direzione di Daniel Oren sul podio, ispirato, con un senso del teatro unico e un amore per le voci che lo rendono impareggiabile.
Biagio Pizzuti si conferma Moralès di lusso, mentre Gianluca Breda è un convincente Zuniga. Svettanti le vocalità di Mariangela Marini e Elisabetta Zizzo nei panni di Mercédès e Frasquita. Accanto a loro ben figuravano Francesco Pittari (Remendado) e Gianfranco Montresor (Dancairo).
Alberto Gazale riproponeva il suo collaudatissimo Escamillo, personaggio autorevole e vocalmente assai ben delineato.

Incantevole è la Micaëla di Mariangela Sicilia, la quale incarna una fanciulla combattiva, energica, molto lontana dai cliché. Teatralmente si muove sul palcoscenico con sicurezza, con gesti ampi, decisi. Micaëla non è per nulla una sprovveduta, anzi sa ben utilizzare le sue armi per riprendersi José. Vocalmente tutto questo si traduceva sonorità da lirico pieno, capace di suoni intensi ma anche di pianissimi cristallini. Tecnicamente la sua prova è stata un florilegio di prodezze, tra messe di voce, filati ed emissioni a fior di labbro eseguiti magistralmente.

Murat Karahan è un Don José ideale per vocalità e recitazione. Il suo è un personaggio attuale: un giovane indeciso su cosa fare della propria vita, un ragazzo che ha perso la strada e che trova in questo amore malato il suo rifugio. E come sempre con i grandi nelle piccole frasi viene fuori tutto il mondo emozionale del personaggio e così nel recitativo dopo il duetto con Micaëla (Ne crains rien, ma mère, ton fils t’obéira…) emerge tutta la fragilità del José di Karahan. Si sente nella sua voce la scuola belcantista che lo aiuta a creare il crescendo interpretativo che lo porta infine ad essere un assassino.

Ksenia Dudnikova, passato il timore delle prime recite, si afferma Carmen di primo livello, con una vocalità lussureggiante e una tecnica solidissima che le permette di accentare e di dare corpo anche alle fioriture belcantiste della parte (che molte interpreti trascurano). Il mezzosoprano ha un notevole carisma che viene però “castrato” dagli infelici costumi.
Al termine un vivo successo per tutti.
Francesco Lodola
Verona, 4 settembre 2019