Cosa può raccontarci l’opera oggi? Forse questa è la domanda che ci pone il Nabucco di Verdi con la regia del duo Ricci/Forte al Teatro Regio di Parma. Ma soprattutto la domanda che viene di conseguenza è: che cosa ci può raccontare oggi Nabucco?
Partendo dalla conclusione che questo spettacolo non è perfetto e non arriva forse a dare una risposta completa ai nostri quesiti, dobbiamo affermare che oggi diventa sempre più difficile proporre quei “Nabucchi” con gli assiro-babilonesi vestiti da “Ferrero Rocher” e gli ebrei con sacchi di iuta. Non è una questione di tradizione o meno, ma certi spettacoli tolgono il teatro che è la cosa più viva della vita stessa al fluire del tempo che è sua condizione naturale.

Dunque Nabucco cos’è? Nabucco è la storia dell’umanità, di un’umanità immersa nel conflitto tra il bene e il male, i quali però non hanno dei confini ben precisi, anzi spesso si mescolano tra loro. Chi sono gli ebrei della Bibbia oggi? Sono i migranti, colori che si ritrovano coinvolti in dinamiche politiche, economiche e sociali più grandi di loro, e che pagano con la vita. Il Nabucco di Ricci/Forte racconta proprio questo, ambientando il tutto su una nave, dove i profughi sono accerchiati da militari ninja che si muovono su degli overboard e che gettano in mare i meno resistenti: la scena delle donne che nell’ atto mimano l’annegamento è commovente oltre che teatralmente magistralmente realizzata. Zaccaria è un prete, una guida spirituale che però sembra egli stesso smarrito. Negli occhi di tutti loro c’è l’orrore, la perdita della propria identità personale e culturale, sono vittime di continua violenza che raggiungono l’apice nel flash delle macchine fotografiche utilizzate per schedare i migranti.

Da una parte dunque c’è la disperazione del popolo, dall’altra vi è l’apologia del potere di Nabucco e Abigaille. Ogni potere, anche il più democratico, ha una sua costruzione del consenso che passa inevitabilmente presso la propaganda, la quale ha il suo principale strumento l’utilizzo dei media. Parte di questo processo è il massacro della cultura con la distruzione tra il I e il II atto, dei libri, letteralmente gettati in due tritacarte elettrici.
Abigaille è un’arrampicatrice sociale, una borghese signora in tailleur anni ‘30 (circa) con innumerevoli guanti, alla conquista del potere, sempre sorridente davanti alle telecamere, mentre accarezza con falsa benevolenza gli afflitti o quando reca i doni per il popolo, mentre spente le telecamere è infidamente perfida, glaciale ed ogni suo sorriso è una coltellata di cattiveria incontrollata. Nell’aspetto visivo ricorda sia Evita Perón che qualche signora della TV del dolore attuale di cui non faremo il nome. Nemmeno il pentimento finale e la ricerca di redenzione sembrano così forti e reali, tanto che a finire al cappio è una delle sue adepte/cameriere personali, incappucciata, alla quale Abigaille pone del rossetto sulle labbra come gesto di resa o di sfregio a seconda del punto di vista.

L’unico momento di purezza è “Va, pensiero”: immersi nella maestosità della cultura e dell’arte, tra statue classiche imballate, gli ebrei/migranti vestiti di bianco cantano, lavandosi la pelle con delle spugne, pettinandosi, leggendo dei libri. È il paradiso degli intellettuali e quelli che cantano il celebre coro, siamo noi in un mondo migliore, dove ci ripuliamo dallo “schifo” del nostro mondo e dove la nostra essenza trova realizzazione nella cultura.
È forse il Nabucco più verdiano che si possa vedere: racconta noi, la nostra cattiveria nei confronti di ciò che ci circonda, il proliferare dell’ignoranza più becera che oggi affligge la nostra società in cui l’analfabetismo funzionale dilaga come in nessun altro momento storico. Il pubblico di Parma si indigna ad alta voce (non siamo noi a dover dire se giustamente o meno), però forse dovremmo imparare a riconoscerci senza vergognarci in questo Nabucco, anche perché le relazioni tra i personaggi (poi non così articolate) sono perfettamente delineate.

Ad ogni modo come detto ci sono alcuni momenti ingenui che cadono nel comico involontario: la pantomima che apre il IV atto significativa nel gesto e nella recitazione straordinaria dei mimi ma vanificata del tutto dalle bolle “sonore”; la consegna del regalo di Abigaille a Nabucco (un pacco bomba?) nel duetto del III atto che non permette ai due interpreti di interagire come potrebbero. Lodiamo le scene di Nicolas Bovey, i bellissimi costumi di Gianluca Sbicca, le luci suggestive di Alessandro Carletti e le dinamiche coreografie di Marta Bevilacqua.
Qui ci fermiamo, perché gli spettacoli in quanto opere d’arte non vanno mai spiegate né dagli artefici né da noi umili recensori, che come tali abbiamo il dovere di descrivere una messinscena, ma soprattutto di invitare il lettore ad andare lui stesso a vedere una produzione.

Grazie alla direzione del Maestro Francesco Ivan Ciampa ci è sembrato di ascoltare Nabucco per la prima volta: ogni nota sembra nascere in quel momento con una forza espressiva travolgente e drammaticamente che definiremmo “carsica”, poiché va a scavare nella profondità di ogni suono, di ogni minimo segno agogico ed espressivo. Niente però appare manierato, ma tutto ha un senso teatrale così intenso e sentito da rimanere abbacinati. Citiamo per tutti i tre staccati sulle sillabe “Non/ma/le…dire” nel finale della morte di Abigaille: tre sospiri di dolorosa potenza e timor di Dio. Emerge la forza della parola verdiana, il senso di comunione e collettività che è poi uno dei messaggi centrali di Nabucco, se non il principale. Merita in questo senso un capitolo a parte l’esecuzione di “Va, pensiero”, che anch’esso appare come fonte nuova, d’inestimabile purezza. L’intimità e l’interiorità che Ciampa vi cerca (dirigendo a mani giunte) ci ha portato alle lacrime: eravamo tutti schiacciati allo schienale delle nostre poltrone, piccoli, minuscoli davanti alla grandezza di un Dio chiamato Verdi.
Un immenso merito però va ascritto all’Orchestra Filarmonica “Arturo Toscanini” e all’Orchestra Giovanile della Via Emilia, e al Coro del Teatro Regio diretto da Martino Faggiani, compagini in stato di grazia.

Lodi vanno anche al cast ben assortito e in grado di essere musicalmente e teatralmente brillante a partire dall’Abdallo di Manuel Pierattelli (voce di prima qualità) e dal Sacerdote di Belo di Gianluca Breda. Squillante la Anna di Elisabetta Zizzo, anche lei destinata a ben altri cimenti a giudicare dal prezioso materiale vocale. Bene anche l’Ismaele dalla voce limpida e virile di Ivan Magrì che rende pienamente giustizia al ruolo.
Rubén Amoretti cerca di difendersi dalle insidie di Zaccaria riuscendovi solo parzialmente, nonostante alcune intuizioni di fraseggio pregevoli.
Annalisa Stroppa è una Fenena autenticamente belcantista, davanti alla quale si rimane nuovamente incantati per lo splendore timbrico, l’abilità tecnica e la capacità espressiva. L’oasi lirica di “Oh, dischiuso è il firmamento” riluce di santo ardore.

Saioa Hernández è una valorosa Abigaille, dal temperamento carismatico che si getta a capofitto nell’interpretazione del proprio ruolo. Vocalmente emerge negli sfoghi drammatici a voce piena come nel duetto della parte III con Nabucco. Quello che forse desidereremmo è una ricerca maggiore dei colori, soprattutto nell’aria della seconda parte.

Superbo il Nabucco di Amartuvshin Enkhbat, che raggiunge qui apici difficilmente raggiungibili. Una vocalità baciata da Dio, abbinata ad una tecnica pressoché perfetta, ed ad una morbidezza che ha ben pochi paragoni sia oggi che nel passato. Un interprete moderno che però non dimentica l’antica scuola che è basata sul canto legato e sul fiato. “Dio di Giuda” è incredibile per la nobiltà del canto che Enkhbat vi infonde, un canto intimo ma fatto di un’intimità michelangiolesca.
Al termine un trionfale successo con acclamazioni per i protagonisti e il Maestro Ciampa.
Francesco Lodola
Parma, 20 ottobre 2019
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