Il 24 novembre, è andata in scena l’ultima recita di “Un Romano a Marte” di Vittorio Montalti, opera in prima mondiale vincitrice del premio di composizione del Teatro dell’Opera di Roma.  Al termine della rappresentazione, è necessario fare alcune considerazioni che per alcuni versi possono esulare il consueto contenuto di una recensione: infatti si è soliti dapprima analizzare, la regia, il comparto vocale e musicale; e poi con più o meno facilità dare un giudizio complessiva dello spettacolo a cui si è assistito. Questo non  è possibile, o quanto meno non in maniera usuale, per l’ascolto appena concluso.

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©Yasuko Kageyama/TOR

Ciò che si è ascoltato suscita nella spettatore, una profonda perplessità che riguarda la natura stessa della performance musicale a cui si è preso parte. L’uso di “performance”, non è casuale, poiché inizialmente non si ha l’impressione di assistere alla recita di un’opera, per quanto contemporanea. È nel leggere le parole dell’autore che si comprende in quale senso ciò che si è visto ed ascoltato è un’opera. Il compositore, Vittorio Montalti, si rifà all’idea di Luciano Berio, secondo cui Opera è da intendere come il plurale di “opus”, una commistione di diverse arti che insieme vanno a formare uno spettacolo unico. In questo Montalti si dimostra estremamente coerente, l’opera infatti prevede l’utilizzo di musica elettronica, cara al compositore, oltre all’orchestra, e attori e voce narrante. Ciò a cui si è preso parte sembra perciò una performance artistica, in cui è il processo creativo e l’idea artistica il fulcro, più che lo spettacolo in sé. Al netta di quanto detto, un’altra considerazione sorge spontanea e riguarda la modalità con cui fruire di uno spettacolo del genere: d’istinto? Di testa?

Nel primo caso si potrebbe, in via ipotetica, dar ragione a coloro che, numerosi, si sono alzati nel mezzo della recita e hanno lasciato la sala del teatro. Nel secondo caso, invece, cogliere la genialità di un’opera che in maniera complessa e fuori dagli schemi, racconta la storia di un autore altrettanto complesso e fuori dagli schemi, e che dunque porta fuori da quel paradigma in base al quale è arte solo “l’arte bella”.

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©Yasuko Kageyama/TOR

Nella più totale sincerità, entrambi gli approcci hanno la loro presa e le loro motivazioni, vi sono infatti alcuni elementi che disturbano, per esempio una forma particolare di reiterazione basata sulla sillabazione. In sé, l’idea non rappresenterebbe un problema, anzi, ma data la concitazione della musica, senza l’ausilio dei sovratitoli, il tutto risulterebbe incomprensibile. Stessa cosa vale per molte frasi musicali, dove l’unico a risultare comprensibile è l’Ennio Flaiano di Domingo Pellicola.

Guardando l’altro corno della questione, però, non si può non rimanere affascinati dalla ritmica che questo tipo di reiterazione crea, che in aggiunta all’utilizzo fatto delle percussioni nella partitura ha come effetto quello di mantenere sempre viva questa pulsione interna della musica.

L’opera incomincia in una sala di teatro semideserta, infatti la vicenda prende le mosse, guidata dalla voce narrante(interpretata da Gabriele Portoghese) , dalla contestazione seguita alla recita di “Un marziano a Roma” di Flaiano, del 23 novembre 1960 a Milano. È da questo evento che il Marziano Kunt (interpretato da Timofei Baranov) compare effettivamente ad Ilaria Occhini (Rafaela Albuquerque). È questa apparizione, pretesto per ripercorrere e analizzare una Roma ed una Italia che sta cambiando. Questo aspetto è forse uno dei più interessanti dell’opera, è infatti l’incontro con l’altro da noi che porta a osservare la realtà in cui si è immersi. La resa scenica è costantemente accompagnata dalla presenza di due mimi (Martha Festa e Jacopo Spampanato) ma soprattutto dalle proiezioni di Gianluigi Toccafondo. Il libretto di Giuliano Compagno si presenta come una commistione di molti stili, citazioni e linguaggi diversi, ed è in questo estremamente apprezzabile.

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©Yasuko Kageyama/TOR

I protagonisti cantanti dell’opera sono tutti talenti del progetto “Fabbrica YAP”, Timofei Baranov, interpretante il marziano Kunt, è il motore dell’azione e della riflessione che segna l’intera opera. La voce di Baranov è brunita, suadente e magnetica, come tutto il personaggio da lui designato, l’unica pecca si presenta  nei momenti di estrema concitazione musicale, in cui la parola viene sacrificata in favore del suono.  La Ilaria Occhini di Rafaela Albuquerque è seducente nella sua fragilità, la cantante sa bene usare il suo potente mezzo, usando tutta la gamma di colori, assai ampia, di cui è capace, condivide la pecca di Baranov riguardante la chiarezza della parola.

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©Yasuko Kageyama/TOR

Il Protagonista Ennio Flaiano era interpretato da Domingo Pellicola, tenore giovanissimo, appena 23 anni, ma con un timbro di spiccata beltà: squillante, rotondo e caldo. Il tenore sa ben passare da frasi sussurrate e parlate al registro acuto in cui la voce si apre e mostra la sua innata grazia. Le doti attoriali dei 3 interpreti erano ben all’altezza della situazione e si amalgamavano splendidamente con quelle degli altri 4 attori presenti sul palco, i già citati Martha Festa e Jacopo Spampanato, nei ruoli due mimi, la voce narrante di Gabriele Portoghese, e la Caterina Martinelli interpretata da Valeria Almerighi.

Insomma uno spettacolo complesso, e di cui risulta difficile dare un giudizio anche di semplice approvazione, ma che sicuramente  è stato, nella recita del 24 novembre ben eseguito, grazie soprattutto alla bacchetta di John Axelrod, il quale ha saputo ben sfruttare il ricco organico che aveva a disposizione e valorizzarne la gamma cromatica, e alla regia di Fabio Cherstich, al quale va dato merito di aver unito linguaggi artistici tanto diversi.

Paolo Mascari

Roma, 24 novembre 2019

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