In un teatro gremito nonostante il panico mediatico in merito al cosiddetto “Coronavirus”, appena prima dell’annuncio di chiusura di tutti i teatri della Regione, va in scena una Butterfly tra luci e ombre, nell’allestimento discutibile di Damiano Michieletto e con la sontuosa direzione di Pinchas Steinberg.
Madama Butterfly, uno dei capolavori assoluti di Giacomo Puccini, Luigi Illica e Giuseppe Giacosa torna a Bologna a distanza di cinque anni dall’ultima rappresentazione. Lo fa, come ormai di consueto, con un allestimento non “tradizionale” ma nemmeno recente (risale a una produzione di ormai 9 anni fa del Teatro Regio di Torino) firmato da Damiano Michieletto.
Le vicende vengono spostate in epoca contemporanea, nel degrado della periferia di una metropoli giapponese in cui giovani donne si vendono quotidianamente agli avventori. Un contesto in cui Cio-Cio-San risulta una ingenua ragazzina chiusa nel suo mondo, raffigurato da un’abitazione che pare una gabbia-scatola al centro della scena. A detta di Michieletto nelle opere di Puccini l’ambientazione è centrale, ben definita e intrinseca alla storia raccontata e dunque va rispettata nella sua idea originaria. Noi condividiamo, ma personalmente credo che per ambientazione non ci si possa limitare ad un’espressione geografica ma si debbano considerare più largamente anche la collocazione temporale e i singoli luoghi descritti. Il rischio altrimenti è quello di creare clamorose dissonanze tra ciò che nel libretto viene cantato, citato, indicato, e ciò che effettivamente accade sulla scena. Com’è possibile sentire più volte accurati riferimenti alla collina, al mare che dipinge l’orizzonte, a giardini colmi di fiori profumati e trovarsi invece piombati tra i neon pubblicitari di uno squallido scenario urbano contemporaneo? Voler liberare Madama Butterfly da certi lezzi accumulatisi negli anni, sicuramente eccessivi e fini a sé stessi, per sprigionarne l’essenza del dramma è un intento nobile ma richiede grande attenzione; sono palesi e vistose infatti le incongruenze su cui cade un tentativo come quello visto, non solo come già detto per il mancato rispetto degli ambienti ma anche per certe libertà sulle azioni stesse dei personaggi. Vedere il bambino che all’alba si risveglia diretto a scuola (a tre anni è già di per sé singolare) e poi la mamma cantare poco dopo amorevolmente a non si sa bene chi “dormi amor mio, dormi sul mio cor, bimbo mio dormi!” è solo uno dei tanti esempi che si potrebbero fare delle ingenue discrasie che costellano lo spettacolo.

Infine ci sorge una riflessione: tra gli elementi fondamentali che caratterizzano l’identità di quest’opera, che ne condizionano la trama e ne spiegano molteplici aspetti, vi è il racconto e la rappresentazione del profondo scontro culturale tra il mondo americano e quello giapponese del tempo, caratterizzati da valori, princìpi, usi, modi di pensare e vivere radicalmente diversi; uno scontro che se al tempo era tale, nel mondo odierno appare invece assai mutato e senza alcun dubbio molto meno acceso. La globalizzazione ha infatti inevitabilmente cancellato molte delle diversità tra società orientali e occidentali, rendendo le prime ormai difficilmente distinguibili (anche nell’architettura delle città) dalle seconde. Ecco perché risulta del tutto improbabile e insensata nella costruzione scenica del Giappone urbano e moderno di Michieletto, la storia di Pinkerton e Madama Butterfly, la quale tra l’altro sembra essere senza un motivo chiaro e solo nel primo atto, l’unica superstite (nei modi e nei costumi) di quella civiltà del passato nel presente. Non mancano nello spettacolo, momenti di teatro di grande impatto, come il sogno del bambino durante il Coro a bocca chiusa e l’Intermezzo sinfonico o il drammatico finale ma costituiscono purtroppo veri e propri compartimenti stagni. A dare aspetto visivo alla messa in scena di Michieletto, ripreso da Roberto Maria Pizzuto, sono le scene di Paolo Fantin, i costumi (davvero poco belli) di Carla Teti e le luci efficaci di Marco Filibeck, riprese da Daniele Naldi.

Di altro livello è indubbiamente la resa musicale, in cui spicca in primo luogo la direzione, davvero sontuosa, del Maestro Pinchas Steinberg. Orchestra e Coro del Teatro Comunale (il secondo come sempre preparato da Alberto Malazzi) sono in stato di grazia e la bacchetta di Steinberg li guida con mirabile trasporto emotivo in sonorità che scuotono nel profondo dell’anima, rivelando appieno la grandezza Pucciniana.
Il cast vocale ha trovato invece luci e ombre a partire dalla protagonista, Madama Butterfly, interpretata da Svetlana Kasyan. Il soprano ha indubbiamente mezzi voluminosi ma l’emissione appare talvolta non a fuoco e la dizione ne risente. Sono gli slanci più drammatici a vederla maggiormente a proprio agio ma si sa, Cio-Cio-San non è solo quello e, specialmente nel primo atto, manca un po’ di credibilità, musicale e scenica.

Eccellente è Cristina Melis, nei panni di Suzuki. La sua è una interpretazione di grande impatto, grazie ad una splendida voce duttile, sonora, omogenea in ogni registro e adeguata ad un’espressività d’effetto.
Soddisfacente il Pinkerton di Raffaele Abete, tenore che sfoggia un timbro particolarmente adatto alle sfumature più liriche del personaggio ma che sa trovare la fermezza di acuti solidi e corposi e una buona resa dei diversi lati del carattere.

Gustavo Castillo è uno Sharpless convincente, che sa trovare personalità sulla scena ma che risulta più che adeguato anche nel canto, forte di uno strumento di qualità.
Pur nella brevità della sua parte musicale, Grazia Sinagra è parsa del tutto credibile come Kate Pinkerton, così come Cristiano Olivieri ha saputo dipingere un Goro antipatico e spietato al punto giusto.

Positiva la prova dei restanti interpreti: Luca Gallo (Yamadori), Nicolò Ceriani (zio Bonzo), Andrea Taboga (Yakusidè), Raffaele Costantini (Commissario Imperiale), Enrico Picinni Leopardi (Ufficiale del Registro), Lucia Michelazzo (Madre di Cio-Cio-San), Maria Luce Erard (Zia), Rosa Guarracino (Cugina), Orlando Antonio Cera (Dolore).
Il pubblico ha accolto con calore l’intero cast riservando solamente qualche isolata contestazione all’indirizzo del regista (non presente) dopo il primo atto.
Grigorij Filippo Calcagno,
Bologna, 23 febbraio 2020