Il catalogo delle opere donizettiane è sconfinato. Questa osservazione risulta essere una ovvietà per chiunque non riduca il nome di Donizetti alle, giustamente famosissime, Lucia di Lammermoor, Don Pasquale ed Elisir d’amore. Sebbene oggi vi siano dei promettenti segni di movimento in questo senso, basti pensare da un lato al lavoro del Festival Donizetti di Bergamo, che ogni anno ripropone opere poco note del genio bergamasco, e dall’altro a quello che potrebbe essere visto come un timido tentativo, da parte dei teatri, di proporre più spesso altri titoli donizettiani oltre le opere sopracitate; molto raramente ci si spinge, però, oltre la trilogia – che trilogia non è, poiché nel gruppo andrebbe compresa anche Elisabetta al castello di Kenilworth (1829) – delle regine Tudor, ossia Anna Bolena (1830), Maria Stuarda (1834) e Roberto Devereux (1837).
Come già detto, tanto ancora c’è da fare, poiché molto ancora c’è da scoprire e ascoltare. Ed è in questa direzione che ci si vuole muovere in questo articolo: proporre un consiglio di ascolto in questo periodo in cui è necessario non uscire e stare in casa ma che ci permetta anche di togliere un abbondante strato di polvere che si trova su questo titolo donizettiano Fausta.

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L’opera ha debuttato al San Carlo nel 1832 con successo, tanto che venne richiesta immediatamente dal Teatro alla Scala. Per l’occasione, il compositore aggiunse una sinfonia. Dell’Opera esistono ben tre versioni, oltre alle due citate di Napoli e Milano, ve ne è una terza, creata per la ripresa dell’opera a Venezia: in questa occasione venne aggiunto un duetto nel primo atto, fra gli interpreti di questa edizione figurò anche Giuditta Pasta. L’opera cadde presto, già nell’800’, nell’oblio, e nel 900’ l’unica edizione di cui si hanno testimonianze audio e video è quella del Teatro dell’Opera di Roma nel 1981, con protagonisti di primissimo livello: nel ruolo del titolo Raina Kabaivanska , Renato Bruson (Costantino) e Giuseppe Giacomini (Crispo) diretti da Daniel Oren.
L’opera risulta meritevole di attenzione per svariate ragioni che vanno oltre il semplice valore musicale, secondo noi altissimo, della composizione. Innanzitutto, segna il ritorno di Donizetti al serio, dopo il successo di Anna Bolena infatti, il compositore non si era più dedicato ad opere serie componendo nel frattempo, Gianni di Parigi, Francesca di Foix, La romanziera e l’uomo nero nel 1831. Inoltre, l’opera ha avuto una genesi travagliata, segnata dalla morte del librettista Domenico Gilardoni, prima che l’opera fosse rappresentata, e dalla ferma opposizione della censura borbonica a causa del tema scabroso.

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Renato Bruson (Costantino) e Giuseppe Giacomini (Crispo) nella Fausta all’Opera di Roma nel 1981

Il cuore dell’opera sta, infatti, nel “Sacrilego amor” di Fausta, moglie dell’imperatore Costantino, per Crispo, figlio di Costantino e di Minervina, prima moglie di Costantino. L’amore incestuoso della trama molto sembra richiamare il mio di Fedra e di Ippolito. A complicare la situazione, e a diversificare le due storie c’è la figura di Beroe (Mezzosoprano) figlia del Re dei Galli, di cui Crispo è innamorato. La tematica dell’incesto va dunque nell’opera ad intrecciarsi con quella del triangolo (Lui-Lei-L’altra). L’analogia con Norma è palese, anche qui, come nel capolavoro belliniano era Adalgisa, Beroe diviene arma di ricatto della protagonista verso l’amato, quando quest’ultimo reagisce sdegnato alla confessione della matrigna. Un’altra similitudine che possiamo trovare con l’eroina belliniana è il crudele e fatale destino che attende la protagonista, la quale muore avvelenandosi, confessando il proprio amore infausto verso Crispo e scatenando lo sdegno dei presenti. Inoltre, un altro motivo di interesse può essere trovato nell’ambientazione: esattamente come la corte inglese dei Tudor è stata un terreno storico e letterario che molto ha ispirato Donizetti, lo stesso si può dire dell’ambiente romano. Fausta non è infatti l’unica opera la cui trama si svolge in epoca romana, vi è anche il più celebre Poliuto (1838) o Les Martyrs (1840) e L’esule di Roma (1827) a cui si potrebbe anche aggiungere il Belisario (1836) di ambiente bizantino.
Vocalmente l’opera rispetta la tradizione belcantista, sia per il rapporto vocalità-personaggio, che per il tipo di difficoltà tecnica: tutte le parti vocali sono caratterizzate dalle peculiarità che le opere di questo periodo hanno, ossia numerose cadenze, agilità, fioriture, lunghi concertati. Il ruolo della protagonista è affidato ad un soprano, per il carattere e il testo, la vocalità che più si avvicina alla scrittura donizettiana è, detta in termini moderni, di tipo lirico-drammatica: sono numerose le grandi frasi legate ma anche i declamati nei recitativi e nei concertati, a cui si aggiungono delle rapide e nette discese sia nel registro grave che in quello acuto. Il ruolo dell’Imperatore Costantino è affidato ad un baritono, con scrittura piuttosto acuta, molto ricorda, la tessitura che dopo qualche anno verrà impiegata da Verdi in Nabucco e Macbeth. La vocalità di Crispo è quella del tenore eroico: squillante, acuta e piena, molto ricorda la scrittura belliniana di Pollione. La vocalità mezzosopranile di Beroe, molto ricorda la tessitura di Sara nel Roberto Devereux.

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Raina Kabaivanska protagonista di Fausta a Roma nell’81

L’opera, a partire già dal coro e concertato della prima scena, presenta pezzi musicali assai apprezzabili. Belle e intense sono le pagine dei numerosi duetti dell’opera e significativa risulta la presenza quasi indisturbata del coro in scena. Ma ciò su cui ci si vuole concentrare l’attenzione in questo breve articolo di presentazione di un’opera che meriterebbe di essere ascoltata per intero, sono le due arie della protagonista e il finale dell’opera.
La prima aria (“Quel celeste tuo sorriso – Ah, se d’amor potessi”) ha delle sonorità particolarissime nell’orchestrazione, che ben fanno intendere l’animo combattuto di Fausta fra lo sdegno di sé e l’amore verso Crispo alternando suoni brillanti con il corpus compatto degli archi. Sebbene la negatività fatale sia già presente in tutta l’opera, quest’aria è una parentesi nella vicenda, una sospensione temporale. Al contrario la seconda aria (“Tu che voli, già spirto beato”) è al centro della vicenda, è una confessione, dolorosa, quasi singhiozzante e insieme una richiesta di perdono all’amato, che non ha potuto salvare, e a Costantino, a cui questa faccenda ha strappato il figlio. Meravigliose sono le semicrome raccolte due a due, e il testo struggente:
“Tu che voli, già spirto beato all’eterno felice soggiorno,
il mio priego tu accogli placato,
mi perdona un sacrilego amor.
Te lo chiedo, ah, te lo chiedo
per quanto t’ho amato, in compenso di tanto dolor!”
Come Fausta Massima Flavia, il personaggio storico, sarà condannata alla damnatio memoriae e morirà, come Flavio Giulio Crispo, in circostanze non chiare, anche questo è stato il destino di una significativa e intensa opera di Donizetti, che seppur ancora nell’oblio, ci auguriamo possa tornare presto alla luce con l’attenzione filologica che ha caratterizzato in questi anni la riscoperta di alcune opere “minori” di Verdi e Rossini.

Paolo Mascari

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