Sulla scia dei consigli di ascolto da poco inaugurata, parlerò oggi di un titolo che sicuramente non può essere definito frequente, ma neanche raro nella misura in cui abbiamo definito raro “Fausta” di Donizetti. L’opera in questione è infatti una di quelle che, per fortuna, ha avuto nuova vita con il dopoguerra, mi riferisco a “Beatrice di Tenda”, penultima opera di Vincenzo Bellini. L’opera, la cui genesi è stata particolarmente travagliata, e che segna la temporanea rottura di Bellini con Felice Romani, offre numerosi spunti di riflessione.
Partiamo dal soggetto: se si osserva il catalogo delle opere belliniane, non molto ricco in quanto composto di appena dieci opere, a causa della morte del sommo catanese all’età di 34 anni, si nota immediatamente l’assenza di drammi legati a vicende storiche, ad eccezione, per l’appunto, di Beatrice di Tenda, che racconta, in maniera piuttosto fedele, la tragica storia di Beatrice Lascaris di Ventimiglia, seconda duchessa di Milano e moglie di Filippo Maria Visconti, condannata a morte dal marito, con la complicità di Agnese del Maino, per adulterio.
La scelta di riferirsi ad un dramma storico ci pare immediatamente interessante: innanzitutto ci permette di creare una linea di continuità, seppur estremamente esile, con il primo articolo di questa rubrica, quello su Fausta. È infatti in quegli stessi anni che Donizetti mieteva successi con opere come Anna Bolena (1830), Lucrezia Borgia (1833) e anche la sopracitata Fausta (1832), tutte opere che si riferiscono a personaggi storici realmente esistiti e le cui vicende furono assai tragiche. Se però, il mondo dei torvi intrighi di corte aveva assai stimolato il genio bergamasco e gli aveva fruttato successi, lo stesso non si può dire per Bellini, dato che l’opera, al suo debutto a Venezia nel 1833, non fu un successo. Un altro tema che ci permette di rapportare i due autori, che insieme a Rossini in quegli anni hanno creato le opere capolavori del Belcanto, è dato dalla tragica sorte che spetta alla protagonista. Come Beatrice, anche Anna Bolena viene condannata, ma le reazioni a questo atto, ingiusto, nel dramma musicale, per entrambe, è assai diversa. Beatrice, come Norma, è permeata da un grande senso della misura, è ieratica nella sua accettazione del male ricevuto e si avvia fiera alla morte. Anna, che pur mantiene una certa regalità nel perdono a Giovanna, nella sua intimità che precede la morte cede alla follia, grande tema romantico. Non che la pazzia sia un tema sconosciuto a Bellini, anzi, basti pensare alla successiva Puritani o alla precedente “Il Pirata”. Questo oscillare fra pazzia e austero controllo delle proprie emozioni nella produzione operistica è di grande interesse, in base all’alternarsi della componente apollinea o dionisiaca in ogni carattere, e nel compositore stesso.

Anche musicalmente è, ancora una volta, calzante mantenere il rapporto con la Bolena donizettiana: se il concertato del finale atto primo di Bellini è una grande scena, con una ampissima dilatazione temporale che ha il sapore amaro, eppur contenuto, della desolazione dell’animo, per quanto riguarda Donizetti, se le parole di Anna, vanno nella direzione di quelle di Beatrice, la musica sembra invece un susseguirsi di strali di ira. Confrontiamo i libretti:
Beatrice: “Né fra voi, fra voi si trova
Chi si levi in mia difesa?
Uom non avvi che si muova
A favor di donna offesa?
Ah! se onor più non ragiona,
Se la terra m’abbandona,
A te, vindice supremo,
Io mi volgo e fido in te.”
Anna: “Ah! segnata è la mia sorte,
se mi accusa chi condanna.
Ah! di legge sì tiranna
al poter soccomberò.
Ma scolpata dopo morte
e assoluta un dì sarò!”
Musicalmente parlando, la partitura è ricca di pagine interessantissime, oltre al già citato finale del primo atto, va sicuramente menzionata la scena finale, in cui Beatrice si dirige al patibolo: “Deh! se un urna è a me concessa”. Anche qui lo stile belliniano e riconoscibilissimo, lunghe frasi legate, pathos crescente, arco melodico scolpito. Beatrice è fiera, non invoca la vendetta, anzi perdona suo marito, che ha ordito la congiura contro di lei e Agnese definendola “oppressa” e affermando “Che morendo io l’abbracciai: che all’Eterno il core alzai a implorar per lei mercé”.
Molto richiama il “Va, infelice e teco reca il perdono di Bolena […] la tua grazia or reco a Dio e concesso a te sarà!” pronunciato da Anna nel lungo duetto con Giovanna nell’inizio del secondo atto.
Per un ascolto sono rintracciabili su Youtube numerose incisioni dell’opera, e delle arie, si distinguono certamente Joan Sutherland, che ha cantato l’opera alla Scala nel 1961, Mariella Devia, Cecilia Gasdia e Edita Gruberova.
Paolo Mascari