E’ un Natale di coprifuochi e di caffè vuoti, quello della Parigi della Bohème in diretta streaming dalla Bayerische Staatsoper. Il quartiere latino accoglie i bohémiens completamente vuoto, con il coro che canta da dietro le quinte e solo un cameriere al servizio dei due unici tavoli occupati di Momus. Si perde in questo modo il vociare natalizio della Parigi pucciniana, ma si acquista ancora di più l’intimità dei rapporti, la profondità di questi personaggi così umani e così tangibili. E nel silenzio infinito con cui si apre e si chiude l’opera, sgorgano le solite lacrime su Mimì spirata, mai così autentiche e sentite.

Il capolavoro pucciniano si presenta nella storica produzione del 1969 firmata da Otto Schenk, con le scene di Rudolf Heinrich. Si tratta di uno spettacolo iper-classico, ma che appare non troppo invecchiato, anzi conserva la sua vitalità e la sua forza. La recitazione dei solisti appare certamente legata più agli stereotipi che ad un lavoro di reale introspezione, con risultati in questo caso comunque convincenti, soprattutto per quanto riguarda il protagonista maschile, di cui parleremo poi.
Sul podio Asher Fisch dirige con asciuttezza e sicurezza, accompagnando i cantanti con grande consapevolezza dei loro pregi. Non manca qualche squilibrio nel rapporto con il coro, inevitabile diremmo in un contesto così complesso e in un’opera come questa, dove il coro (quello degli adulti e quello di voci bianche) assume un ruolo dialogante come raramente accade. Cori ben diretti (per quanto sia possibile udirli) dal maestro Stellario Fagone.

Nei ruoli di fianco ben si comportano Christian Valle (doganiere), Oğulcan Yilmaz (sergente dei doganieri), Karel Martin Ludvik (Alcindoro), Andres Agudelo (Parpignol) e Christian Rieger (Benoît).
Tareq Nazmi sfrutta a pieno il potere dialettico del filosofo Colline, traendo buon risultato dalla “Vecchia zimarra”. Il giovane Sean Michael Plumb è uno Schaunard di voce bella e giovane, mentre Andrei Zhilikhovsky è un Marcello anch’esso di voce ricca, sana e brunita e soprattutto dal temperamento esuberante. Mirjam Mesak è una buona Musetta grazie all’adeguato spirito attoriale, salvo alcune spigolosità nel registro acuto (percepite attraverso l’audio dello streaming, quindi con dei limiti oggettivi).
Rachel Willis-Sørensen possiede voce ampia, di bel colore ambrato e cremoso che ben si adatta al calore della Mimì pucciniana. La sua pare una prova in crescendo che nel IV quadro trova la quadratura del cerchio risultando finalmente toccante. Quello che sembra mancarle è un po’ di intima partecipazione in più dal punto di vista teatrale e quella capacità di abbandonarsi allo slancio melodico che la renderebbero una Mimì ideale.

Jonas Kaufmann forse non ha fatto di Rodolfo uno dei suoi ruoli più simbolici, pur avendolo portato sul palcoscenico in più di un’occasione, dal debutto nel 2007 alla Zürich Opernhaus accanto all’incantevole Mimì di Elena Mosuc fino alla più recente (andando a memoria) Bohème di Salisburgo del 2012 dove Kaufmann cantava l’opera al lato del palcoscenico e l’indisposto Piotr Beczala recitava fisicamente il ruolo. Sgombriamo subito il campo: ogni tenore che si trova a dover affrontare Rodolfo dovrebbe osservare quello di Kaufmann, poichè egli possiede quel dono di far nascere ogni parola e ogni gesto dalla più autentica spontaneità, come se tutto stesse avvenendo in quel momento e non fosse previsto (è quasi impossibile da spiegare). Basterebbe prendere i momenti poco prima della morte di Mimì, il suo modo di guardarla, il suo modo di prenderle le mani per renderlo un Rodolfo di assoluto riferimento. La vocalità, alcuni direbbero troppo scura, si staglia generosa, sicurissima (Do della “manina” incluso) e soprattutto mai paga dell’effetto, ma anzi usata con foga (controllata) travolgente. E’ un Rodolfo che ha l’eroismo e la nobiltà del sentimento, uno dei pochi che sa piegarsi ad un fraseggio così sensibile da toccarci profondamente.
Francesco Lodola