Dopo le soddisfacenti prove regalate dal Regio Opera Festival nei mesi di giugno e luglio, ad accompagnare il pubblico torinese nel pieno dell’estate è stata La serva padrona di Pergolesi. Un repertorio buffo, di teatro piacevole e leggero ma significativamente adatto a rappresentare lo sviluppo di un festival che ha già portato in scena titoli impegnativi e che fortunatamente non accenna ad arrestarsi. Non a caso il festival registra ampia affluenza di pubblico, in parte straniero, desideroso di passare un’ora di spensieratezza sulle note buffe di un Pergolesi dinamico. Una dinamicità che è stata ben colta dalla direzione di Giulio Laguzzi, caratterizzato da una piena comprensione della partitura, ora sostenuta e ora sentimentale, certamente capace di restituire un accompagnamento pulito grazie alla buona intesa col maestro al cembalo, Carlo Caputo. Dopo una veloce ma accorata dedica alla memoria di Graham Vick, Sebastian Schwarz dà il via allo spettacolo. La regia di Mariano Bauduin ci proietta all’interno di una fittizia sagoma teatrale che vuole idealmente incorniciare lo svolgimento delle scene a ricreare gli ambienti e le atmosfere in cui il capolavoro di Pergolesi ebbe modo di imporsi nei decenni centrali del secolo XVIII.

Il pubblico comprende sin da subito la centralità che la classicità assume nella regia di Bauduin senza correre il rischio di portare sulle scene uno spettacolo anacronistico e distante dalla sensibilità odierna. Pochi oggetti rendono l’idea degli ambienti all’interno dei quali si consumano le curiose vicende di Uberto e Serpina, interpretati rispettivamente dai già rodati Marco Filippo Romano e Francesca Di Sauro. Una coppia molto interessante che avevamo già apprezzato nel Così fan tutte diretto a Torino da Riccardo Muti. Romano si impone soprattutto per la pulizia tecnica capace di regalare un fraseggio ineccepibile, fondamentale per un simile repertorio, che non rischia di subire tentennamenti quando alla caratterizzazione del personaggio è richiesto del sano sentimentalismo. Di Sauro sorprende con una voce vellutata ma guizzante, in grado di animare un personaggio che pare esserle stato cucito addosso. Alla virtuosa coppia di cui sopra si aggiunge la prova più che convincente di un Pietro Pignatelli al quale viene richiesta, oltre alla personificazione di Vespone, l’aggiunta di alcune strofe tratte da Lo Frate ‘nnamorato dello stesso Pergolesi, qui intermezzo tra le due parti. Ne esce uno spettacolo decisamente brillante e interessante, tanto per un pubblico appassionato quanto per un pubblico di prima mano ma volenteroso di avvicinarsi al mondo del teatro d’Opera.
Una Serva padrona, dunque, che pur rinunciando alla novità è in grado di parlare al cuore di un pubblico moderno grazie alla magistrale prova d’insieme offerta da questa attenta produzione torinese.